La donna nella riflessione filosofica e teologica di san Tommaso d’Aquino

di Francesco Pignatelli

San Tommaso d’Aquino (1225 – 1274) non si è mai posto il compito di una definizione della donna in quanto tale. Eppure dai suoi scritti, ed in particolare dalla Summa, emerge l’immagine della donna legata strettamente alla sua complementarietà con l’uomo soprattutto nell’unione matrimoniale, nella quale è vista in uno stato di subordinazione rispetto all’uomo, dovuto alla sua inferiorità naturale. II suo ruolo principale, invece, è quello di essere madre. Tali enunciati non vanno presi troppo rigidamente, tuttavia saranno paradigmatici ogniqualvolta egli parlerà della donna.

Questa concezione della donna, ricavata da una più ampia riflessione teologica e filosofica sull’uomo, sembrerà riduttiva ed in più punti oggi – giustamente – inaccettabile, ma è del tutto errato giudicarla tout court negativamente o etichettarla come antifemminista. Tommaso è un uomo medievale: un linguaggio diverso o più vicino al nostro modo di pensare, sarebbe parso ai suoi contemporanei completamente anacronistico se non del tutto incomprensibile.

Eppure un’originalità perennemente valida possiamo coglierla tra i passi che stiamo per analizzare. «Il mondo sarebbe imperfetto senza la presenza della donna» afferma Tommaso: la donna è stata espressamente voluta Dio che, nel creare la natura nella sua universalità, creò non solo il maschio, ma anche la femmina, altrimenti l’universo sarebbe rimasto privo della sua perfezione (Summa Theologiae I q. 92 a. 1 ad 1 e ad 3). La diversità dei sessi rientra dunque nella perfezione della natura umana (ST I q. 99 a. 2 co.) in cui la donna, tra l’altro, ha il precipuo compito di generare ed essere madre, cosa che nessun uomo – maschio – può fare.

E DIO CREÒ ANCHE EVA…

Per cominciare è necessario letteralmente “partire da Adamo ed Eva”. Questo per due motivi: primo perché anche san Tommaso, da buon teologo medioevale, è partito dalla Sacra scrittura non tanto per farne l’esegesi quanto piuttosto per ispirarsi ai princìpi generali e ai motivi filosofici e teologici che vi emergono. In secondo luogo perché si è servito, purtroppo – diremmo noi –, di un tipo di esegesi “maschilista” propensa cioè a fermarsi più che altro sull’aspetto contingente ed antropomorfico dei testi, scivolando inevitabilmente nello stesso antifemminismo proprio del tardo giudaismo, particolarmente intento, quando il testo si prestava, a dare una giustificazione anche biblica alla situazione socio culturale di disuguaglianza molto diffusa in quel periodo.

Tommaso dunque, riprendendo una siffatta interpretazione del racconto della creazione della donna, si preoccupa di conservare l’equilibrio tra l’uguaglianza dei sessi – sul piano della grazia – davanti a Dio e il primato maschile, precisando la distinzione fatta da sant’Agostino: l’uomo e la donna sono immagine di Dio in ciò che in essi è essenziale e principale: la loro anima spirituale e razionale ma per quanto riguarda certi caratteri secondari, l’immagine di Dio si trova nell’uomo,  – nel maschio – in un modo che non si realizza nella donna; infatti l’uomo è il principio e il fine della donna, come Dio è il principio e il fine di tutta la creazione, e qui la citazione del testo di san Paolo: «Tanto nell’uomo che nella donna si trova l’immagine di Dio, quanto all’elemento principale che costituisce l’immagine, cioè quanto alla natura intellettiva. Perciò la Genesi (Gn 1,27), dopo aver detto che “lo creò a immagine di Dio”, soggiunge: “Li creò maschio e femmina”; e che “li” al plurale, come osserva sant’Agostino, perché non si pensasse che i due sessi siano stati uniti in un solo individuo. – Se però consideriamo certi aspetti secondari, allora l’immagine di Dio che è nell’uomo non è nella donna; l’uomo, per esempio, è principio e fine della donna, come Dio è principio e fine di tutta la creazione. Perciò l’Apostolo, dopo aver detto che “l’uomo è immagine e gloria di Dio, la donna invece è gloria dell’uomo”, mostra la ragione delle sue parole, continuando: “poiché non viene l’uomo dalla donna, ma la donna dall’uomo; né fu fatto l’uomo per la donna, ma la donna per l’uomo (1 Cor 11 ,7 – 9)» (ST I q. 93, a. 4 ad 1).

Per questo: «era conveniente che la donna fosse formata con la costola dell’uomo. Primo, per indicare che tra l’uomo e la donna deve esserci un vincolo di amore. D’altra parte la donna “non deve dominare sull’uomo” (1 Tim 2,12)» (ST I q. 92, a. 3). «…l’uomo è capo della donna. Perciò questa fu giustamente tratta dall’uomo, come dal suo principio» (ST I q. 92, a. 2).

Viene qui dedotta, dunque, dall’anteriorità dell’uomo la sua superiorità: da qui deriva il potere di sottomissione che l’uomo deve esercitare sulla donna e quindi la subordinazione di questa all’uomo scaturisce dalla legge naturale, cioè di diritto divino. Tutto questo a motivo di un concetto molto semplice: ciò che è prima è più prezioso e importante di ciò che viene dopo.

Tuttavia non fermiamoci, quasi per partito preso, a deplorare questo tipo di esegesi “maschilista” e tanto meno l’interpretazione di san Tommaso, poiché in ogni caso dobbiamo considerare la circostanza in cui la donna viene plasmata “dalla costola” dell’uomo, cioè del maschio. La donna trae origine da una situazione esistenziale dell’uomo: la coscienza cioè della sua solitudine affettiva. Se da un lato risulta facile rendersi conto che non si tratta di una descrizione di assoluta uguaglianza tra uomo e donna, poiché Dio ha creato la “coppia” a sua immagine, stupenda nella misteriosità della complementarietà; dall’altro sarebbe ingenuo negare che il racconto della Genesi escluda una diversa “dignità”, una “priorità” del maschio sulla donna, come colui al quale la donna deve riferirsi per la realizzarsi compiutamente.

Un’altra sfaccettatura del “problema donna” così come l’ha saputa cogliere san Tommaso nella sua lettura del Genesi, la troviamo nella descrizione del peccato originale.

Egli parte dalla “agostiniana” ricostruzione simbolistica della prima tentazione, tipo e modello di ogni altra, illustrata e divulgata da Pietro Lombardo. A partire da questo passo delle Sentenze tutti i maestri successivi ricavarono le proprie considerazioni sul processo psicologico che conduce alla colpa. Fra questi vi è anche l’Aquinate al quale, però, più che il fatto nella sua concretezza storica, sempre difficile a determinarsi, interessa il suo valore tipico e simbolico. Eccone la descrizione di quale sia stato il ruolo della donna: «…come dice sant’Agostino: “la donna non avrebbe creduto alle parole del serpente, che le fossero state proibite da Dio cose buone e utili, se già nella sua mente non fosse subentrato l’amore della propria grandezza, e una certa presunzione superba”. Ciò non significa che la superbia abbia preceduto la suggestione del serpente: ma che immediatamente dopo di essa la mente della donna fu presa dall’orgoglio, il quale la indusse a credere per vero quello che diceva il demonio» (ST II – II q. 163, a. 1 ad 4).

Tuttavia la responsabilità di Eva non risulta né maggiore né inferiore alla scelta di Adamo. Infatti, giustamente, alla difficoltà: «…se peccando Eva, e non Adamo, i figli avrebbero contratto il peccato originale” (ST I – II q. 81, a. 5), san Tommaso risponde di no, ponendo i progenitori sullo stesso piano di colpevolezza, anzi evidenziando il ruolo negativo di Adamo: la ragione formale, cioè che la trasmissione del peccato originale dipende dalla mozione ‘attiva’ di Adamo nell’ordine della generazione, è evidentemente caduca, nonostante ciò, l’intuito del teologo non è stato eccessivamente trasformato dalle nozioni di scienza naturale che la sua epoca imponeva.

Vi sono però altre implicanze circa il peccato di Eva: perché doveva essere tentata per prima proprio la donna? «… nella tentazione il demonio fu come la causa agente principale, mentre la donna servì come strumento per vincere l’uomo. Sia perché la donna era più debole: e quindi poteva più facilmente essere sedotta. Sia perché, data la sua intimità con l’uomo, la donna costituiva per il diavolo il mezzo più efficace per sedurre l’uomo» (ST II – II q. 165, a. 2 ad 1).

A questo punto troviamo un’altra difficoltà: se è doveroso eliminare le occasioni di peccato, Dio non conosceva già che la donna sarebbe stata occasione di peccato per l’uomo? San Tommaso risponde: «Se Dio avesse sottratto dal mondo tutto quello che ha dato all’uomo occasione di peccato, l’universo sarebbe rimasto privo della sua perfezione. Ora, non si doveva sopprimere il bene universale, per evitare un male particolare; specialmente se consideriamo, che Dio è tanto potente, da indirizzare al bene qualsiasi male» (ST I q. 92, a. 1 ad 3) …e questa risposta è veramente degna dell’Aquinate e del suo sano ottimismo.

L’INFLUENZA DI ARISTOTELE

Tutti gli autori ecclesiastici che hanno dovuto trattare la verità per loro incontestabile della inferiorità e della subordinazione della donna, hanno compreso bene che per dimostrarla e spiegarla non potevano limitarsi a citare testi della Bibbia. Era giusto risalire alle origini della creazione ma bisognava spiegare come mai le stesse presunte incapacità si perpetuavano in tutte le donne. Per chiarire l’inferiorità della donna, che si riteneva naturale, bisognava dunque ricorrere alle scienze “profane” del tempo. Ora nello stadio evolutivo delle scienze nell’antichità molto spesso l’ideologia (ossia la spiegazione che si voleva razionale) suppliva ampiamente alla povertà delle osservazioni scientifiche.

Tuttavia dobbiamo, senza meno, giustificare la buona fede di questi “autori” i quali non potevano non usare che quelle poche e a volte errate nozioni scientifiche che avevano a disposizione. Grazie alla importanza ed alla incontestabile qualità della sua opera, san Tommaso anche in questo campo rimane il testimone privilegiato di una mentalità comune alla tradizione cristiana. É noto infatti che nel XIII secolo san Tommaso ha avuto il merito di introdurre la filosofia di Aristotele nella speculazione teologica ed è incontestabile che questo rapporto sia stato molto positivo, se non altro per il vantaggio di una struttura concettuale e soprattutto di una mentalità più realista ed ottimista, caratteristica del pensiero aristotelico. Il perché san Tommaso abbia utilizzato la scienza anche empirica di Aristotele, non dovrebbe costituire un problema se si pensa che per gli studiosi del duecento Aristotele non era uno dei tanti naturalisti antichi ma “il naturalista” per antonomasia. E un tale prestigio era addirittura fanatismo nella corrente “averroista”, che rappresentava allora il pensiero laico o – se vogliamo – anticlericale del tempo.

Partendo dall’idea corrente che la sessualità e il suo esercizio hanno come scopo essenziale la generazione (Cfr ST I, q. 98, a. 2) e dalla totale ignoranza della ovulazione della donna – le prime spiegazioni scientifiche corrette risalgono soltanto alla fine del XVII secolo – e soprattutto dell’esistenza dei cromosomi portatori dei fattori ereditari – scoperta alla fine del XIX secolo –, nozioni queste che i fisiologi del secolo XIII, e a maggior ragione Aristotele, non potevano certo riscontrare sperimentalmente, come si è potuto fare in seguito alla invenzione del microscopio, non si poteva concludere che questo: l’unico fattore visibile nella generazione era lo sperma maschile, per cui soltanto l’uomo aveva un ruolo positivo nella generazione: è lui che “dà” il seme e la donna non è che il ricettacolo: «in ogni generazione si richiede una virtù attiva ed una virtù passiva. E dove c’è distinzione di sesso, la virtù attiva risiede nel maschio, quella passiva nella femmina» (ST I q. 98, a. 2). «Nella donna la potenza generativa è imperfetta rispetto alla potenza generativa dell’uomo» (ST IlI q. 32, a. 4 ad 2).

«Il seme della donna non è atto alla generazione, ma è un seme imperfetto, la cui imperfezione è conseguente all’imperfezione della potenza generativa della donna. Perciò tale seme non è materia necessaria per il concepimento, come insegna il Filosofo (De Generat. Animal. I, 19)” (ST IlI, q. 31, a. 5, ad 3).

Questa concezione pseudo – scientifica ha contribuito ad elevare l’uomo ad un ruolo primario perfino nella concezione del bambino: «…nella generazione il padre è più importante della madre» (ST Suppl. q. 52, a. 4.) [1] relegando la donna ad un ruolo di “terra” che produce e fruttifica per il bene del marito e nulla più, dovendo poi badare con fedeltà ad accudire i figli e alla casa, quale unica missione consona alla sua natura femminile: «…il seno di una donna sta al seme dell’uomo come la terra alla semente» (ST Suppl. q. 52, a. 4 co.).

La distinzione di base tra potenza attiva, l’elemento maschile, e potenza passiva, l’elemento femminile, in ordine alla generazione e stato assunto da san Tommaso come leit-motiv in di versi altri punti della Summa che toccano, anche per vie diverse, questo argomento.

Scendiamo ancor più nei particolari. L’elemento attivo è considerato, dunque, senz’altro come il seme, cioè «come un tutto in potenza, avente in sé la virtù di produrre tutto il corpo» (ST I, q. 119, a. 2). La nozione di seme è esatta; ma essa può applicarsi solamente all’ovulo già fecondato, cioè al germe o al feto. Infatti non possiamo riconoscere al solo sperma, come fa san Tommaso, le qualità descritte. L’ovulo femminile ha una funzione che non può dirsi passiva. Esso concorre con lo spermatozoo che lo feconda alla costituzione del germe capace di svilupparsi. Questo, a sua volta, è costituito da una cellula germinale in cui i cromosomi delle due parti sono dello stesso numero, e quindi anche in questo la donna partecipa attivamente alla generazione non meno dell’uomo.

Ritornando ai testi della Summa, l’elemento femminile essendo principio passivo e, quindi, materiale [2] sarebbe soltanto una “corpulenta sub stantia”, vale a dire una materia organica piuttosto informe.

«Ora, è legge naturale che nella generazione la donna somministri la materia e l’uomo ne sia invece il principio attivo, come dimostra il Filosofo (De Generat. Animal. I, cc. 2, 20; 2, c. 4; 4, c. 1). (…) Ebbene, secondo il Filosofo (De Generat. Animal. I, c.19), questa materia è il sangue della donna, elaborato però dalla madre, per renderlo atto al concepimento» (ST IlI, q. 31, a. 5 ad 1).

Perciò, continua san Tommaso citando Aristotele (2 Physic. c. 2 lect. 4), come nelle arti dispone la materia e la superiore le dà la forma; così la potenza generativa femminile prepara la materia e la potenza attiva maschile dà forma alla materia preparata [3]. Così anche «…a detta del Filosofo, nel generare la prole il maschio sta alla femmina come l’agente al paziente, o come l’artigiano alla materia grezza. Ora, non è contro l’ordine di natura che un agente agisca su molteplici pazienti, o che un artigiano operi su varie materie» (ST Suppl., q. 65, a. 1).

Per concludere, dobbiamo ammettere che, a prescindere da queste ingenue spiegazioni fisiologiche, che – si è visto – sono il tributo negativo che anche san Tommaso paga alla scienza dell’epoca o, meglio, all’aristotelismo scientifico, abbiamo qui un primo grave pregiudizio e cioè: la riduzione del confronto tra l’uomo e la donna nella sfera fisiologico – biologica e da qui far partire la riflessione antropologico – filosofica che di conseguenza risulta alquanto distorta. Inoltre, anche a prescindere dai dati scientifici, sappiamo bene che mentre per l’uomo la generazione è poco più di un episodio, per la donna è tutta una vita. Perciò il dualismo aristotelico actio – passio non si può assolutamente applicare in questa materia come è stato fatto in passato. Del resto la funzione preminente della donna nella generazione umana era già stata posta in evidenza dallo stesso libro della Genesi là dove spiega il nome di Eva, imposto da Adamo alla sua compagna: “L’uomo chiamò la moglie Eva, perché essa fu la madre di tutti i viventi” (Gn 3,20).

MAS OCCASIONATUS

Posto che, in tale prospettiva non vi sarebbe che un unico e vero sesso, quello maschile, il solo responsabile, come abbiamo visto, della generazione e unico trasmettitore della discendenza ereditaria, il solo praticamente identificato con la natura umana perfetta perché il solo capace di trasmetterla, non meno strane saranno le conseguenze dedotte da questo primato: «Dice il Filosofo che “la femmina è un maschio mancato” (ST I, q. 92, a. 1).

Il primato del sesso maschile si risolve in pratica in un vero monosessismo, dato che il sesso femminile è concepito come forma deviante del solo ed unico sesso maschile. In effetti la raffigurazione prescientifica delle cose poneva questo terribile problema: se soltanto il sesso maschile fosse il vero sesso generatore, normalmente dovrebbe generare soltanto una progenitura maschile, poiché “il simile non può generare che il suo simile”. Possiamo leggere infatti: «…la virtù attiva racchiusa nel seme del maschio tende a produrre un essere perfetto, simile a sé, di sesso maschile» (ST I, q. 92, a. 1 ad l). Ma allora da dove potrà provenire la donna? La risposta era logica partendo da tali premesse: la donna non era che un’altra forma di maschio, ma un maschio mancato”, un maschio “non riuscito”, una specie di “progetto rovinato”. In che modo? Eccone la spiegazione interessante quanto curiosa: «…il fatto che ne derivi una femmina può dipendere dalla debolezza della virtù attiva, o da una indisposizione della materia, o da una trasmutazione causata dal di fuori, p. es., dai venti australi che sono umidi, come dice il Filosofo» (ST I, q. 92, a. 1); Egli, infatti asserisce che «il vento di tramontana giova alla generazione dei maschi; quello australe alla generazione delle femmine. Altre volte può dipendere da un’apprensione dell’anima, che facilmente si fa sentire sul corpo. Questo poteva capitare specialmente nello stato di innocenza, quando il corpo era maggiormente soggetto all’anima; cosicché la distinzione di sesso nella prole sarebbe avvenuta secondo la volontà del generante» (ST I, q. 99, a. 2 ad 2) [4].

L’esistenza della donna è determinata dunque da un fattore di “natura”, rispetto alla quale, nella sua universalità, la donna non è un essere mancato, ma è espressamente voluto dal Creatore in ordine alla generazione poiché diversità dei sessi rientra nella perfezione della natura umana: «Rispetto alla natura particolare la femmina è un essere difettoso e manchevole (…), rispetto invece alla natura nella sua universalità, la femmina non è un essere mancato, ma è espressamente voluto in ordine alla generazione. Ora, l’ordinamento della natura nella sua universalità dipende da Dio, il quale è l’autore universale della natura. Perciò nel creare la natura egli produsse non solo il maschio, ma anche la femmina» (ST I, q. 92, a. 1 ad 1). «Sebbene la generazione della donna sia estranea all’intenzione della natura particolare, o individuale, è però secondo l’intenzione della natura universale, la quale per la perfezione della specie umana richiede l’uno e l’altro sesso. Ma la differenza di sesso, come abbiamo detto, non implica nessuna menomazione» (ST Suppl. q. 81 a. 3 ad 2). Così Tommaso conclude che: «Come, dunque, i diversi gradi degli esseri rientrano nella perfezione dell’universo, così la diversità dei sessi rientra nella perfezione della natura umana» (ST I, q. 99, a. 2).

Da ciò deriva anche, per esempio, che sia l’uno che l’altro sesso sarebbero stati generati nello stato d’innocenza (Cfr. ST I q. 99, a. 2) e che gli uomini risorgeranno, ugualmente, di diverso sesso poiché: «…dopo la resurrezione non ci sarà in queste qualità nessuna differenza secondo la diversità del sesso, ma piuttosto secondo la diversità dei meriti (…) la differenza di sesso non implica nessuna menomazione” (ST Suppl. q. 81 a. 3 ad 2 et 3). Queste ultime affermazioni senza dubbio scagionano san Tommaso dall’accusa di “antifemminismo sfumato”, ma solo per metà poiché, lo vedremo anche in seguito, egli ammette una sostanziale uguaglianza dell’uomo e della donna nella dignità umana, come aveva fatto Aristotele, e, come abbiamo visto sopra, anche a livello spirituale, ma la nega nella vita concreta.

Tuttavia anche questo non può che essere un giudizio troppo frettoloso perché dobbiamo onestamente riconoscere che san Tommaso non aveva in mano gli elementi positivi necessari per risolvere in maniera soddisfacente i quesiti proposti. Le nozioni fisiologiche e biologiche attinte da Aristotele erano rudimentali ed empiriche e spesso inquinate. Infatti certe nozioni erano state elaborate con procedimenti a priori, sui quali facevano sentire il loro peso i pregiudizi del paganesimo classico contro la donna. Poiché questi sono gli stessi motivi che utilizzati a formulare le difficoltà è chiaro anche che in questo frangente Tommaso abbia compreso di avere dinanzi a sé dei pregiudizi da combattere [5].

Inoltre egli, utilizzando la scienza empirica di Aristotele, ha avuto almeno il merito di tentare di dare una giustificazione tecnica al primato del sesso maschile che la cultura occidentale molto ingenuamente considerava, e lo considera spesso ancora oggi, verità immutabile e ovvia.

FEMINA EST ALIQUID DEFICIENS

É Eva che ha commesso per prima il peccato originale. Lei inoltre ha fatto da mediatrice tra il serpente e l’uomo per incitarlo a disobbedire a Dio. Eva è la donna che si mostra non solo come l’eterna possibile seduttrice della quale l’uomo deve diffidare, ma anche un soggetto debole, incapace di resistere alla tentazione. Da qui la necessità di limitare la sua libertà e di collocarla sotto la tutela dell’uomo come una eterna minorenne: «…in questa sudditanza la donna è naturalmente soggetta all’uomo; perché l’uomo ha per natura un più vigoroso discernimento di ragione» (ST I q. 92, a. 1 ad 2). «…parlando in modo assoluto, a parità di condizioni, l’uomo nella fornicazione pecca più della donna: perché è dotato di maggiore capacità razionale, che deve dominare i moti delle passioni» (ST Suppl. q. 62 a. 4 ad 5).  Dunque la mancanza di discernimento razionale sarebbe un “attenuante” a favore della donna:

«Sembra che la moglie debba essere in condizione più vantaggiosa. Infatti: Quanto maggiore è la fragilità di chi pecca, tanto il peccato merita di più il perdono. Ma nella donna la fragilità è maggiore che nell’uomo: per cui il Crisostomo afferma che la passione propria delle donne è la lussuria. E il Filosofo scrive che le donne a rigore non si dicono continenti, per la loro facile inclinazione alla concupiscenza: poiché neppure le bestie possono essere continenti, non avendo nulla che possa resistere alla concupiscenza. Perciò nelle cause di divorzio si dovrebbe essere più indulgenti verso le donne» (ST Suppl. q. 62 a. 4 co.); e si potrebbe continuare ancora, ad esempio: «La diversità di sesso impone una diversità rispetto alla continenza: poiché, a detta del Filosofo, le donne non sono né continenti né incontinenti (…). La donna, avendo una debole complessione fisica, ordinariamente aderisce debolmente alle cose cui aderisce, sebbene in casi rari avvenga diversamente, come accennano quelle parole dei Proverbi: “Una donna forte chi la troverà?”. E poiché ciò che è poco o debole si considera inesistente, il Filosofo dice che le donne non hanno fermezza di giudizio; sebbene in certe donne avvenga il contrario (!). E per questo afferma che “le donne non sono continenti, perché non guidano se stesse”, mediante una solida ragione, “ma si lasciano guidare”, seguendo facilmente le passioni». (ST II – II q. 156 a. 1 arg. 1 e ad 1).

Eppure una relazione a tutto ciò possiamo trovarla nel luogo comune secondo cui “l’uomo è ragione, la donna è sentimento”, ma in queste caratteristiche complementari è estremamente difficile distinguere ciò che è alla base della psicologia umana da ciò che invece è frutto di cultura e di educazione. Le differenze tra individui sono anche rilevanti. Se, ad esempio, l’uomo è generalmente più astratto e la donna più concreta, vi sono anche uomini estremamente concreti, come vi sono donne con un atteggiamento notevolmente astratto. E così per tutte le caratteristiche che vengono attribuite rispettivamente all’uomo e alla donna.

Di fronte alla legge non vi sono disparità: «…sebbene l’uomo sia a capo della donna quale dirigente, non lo è in funzione di giudice: e neppure viceversa» (ST Suppl. q. 62 a. 4 ad 4). Tuttavia le donne non hanno pieno diritto di cittadinanza (Cfr ST I – II q. 105 a. 3 ad 1) per non parlare, infine, dell’esclusione della donna da qualsiasi responsabilità pubblica: «… anche secondo il Filosofo si ha la corruzione di tutto il vivere civile quando il dominio finisce nelle mani di una donna» (ST Suppl. q.19 a.3 ad 4).

Per concludere, mi pare giusto non passare sotto silenzio altri due articoli della Summa in cui l’Anquinate con la sua caratteristica “luminosità” si impegna a restituire alla donna ciò che è suo al di là di ogni falsa prevenzione. Dunque, dato che “sexus masculinum est nobilior quam sexus femininus” e che c’era tutta la convenienza che Cristo assumesse ciò che era perfetto nella natura umana, perché ha assunto la carne da una donna e non piuttosto dall’uomo, come da una costola dell’uomo fu formata Eva? San Tommaso risponde: «… era convenientissimo che l’assumesse [ la carne ] da una donna. Primo, perché in tal modo è stata nobilitata tutta la natura umana. Di qui le parole di Sant’Agostino: “La liberazione dell’umanità aveva da manifestarsi in ambedue i sessi. Se dunque era opportuno che assumesse un uomo, perché è il sesso più nobile, conveniva che la liberazione del sesso femminile si mostrasse nel fatto che quell’uomo è nato da una donna” (…). Cristo assunse la natura umana nel sesso maschile. Ma perché il sesso femminile non fosse esposto al disprezzo, era bene che egli assumesse la carne da una donna. Di qui le parole di sant’Agostino: “Uomini non mancate di stima verso voi stessi: il Figlio di Dio ha assunto un uomo. Donne, non mancate di stima verso voi stesse: il Figlio di Dio è nato da una donna”» (ST IlI q. 31 a. 4 ad. 1 e co.). Ed alla domanda: perché Cristo volle per primo apparire alle donne dopo la resurrezione, risponde: «Cristo volle per primo apparire alle donne, perché come la donna era stata la prima a portare all’uomo il germe della morte, così fosse la prima ad annunziare gli albori della gloria in Cristo risorto. Di qui le parole di san Cirillo: “La donna che era stata quasi strumento di morte, fu la prima a constatare e ad annunziare il mistero della santa resurrezione. Cosicché il sesso femminile è stato redento dall’infamia e dalla maledizione”. Ciò serve anche a dimostrare che nello stato della gloria futura le donne non avranno nessuna minorazione dal loro sesso; ma se saranno più ferventi nella carità, godranno una gloria superiore nella visione di Dio: e questo perché le donne, che avevano amato il Signore più ardentemente, al punto “di non abbandonare il sepolcro, mentre i discepoli lo abbandonavano”, videro per prime il Signore risorto nella gloria» (ST IlI q. 55 a. 1 ad 3).

SPOSA E MADRE

Tutte le volte che san Tommaso ha parlato della donna, ha voluto darle un posto privilegiato, quasi esclusivo, nel rapporto coniugale ed attraverso la funzione di madre.

Prima di tutto bisognerà inquadrare la coppia nella struttura gerarchica, differenziata, tipicamente patriarcale, Nonostante l’uguale dignità dei due sessi davanti a Dio, la vita della donna non era concepibile fuori dalla subordinazione e dall’obbedienza all’uomo, in conformità con i ruoli già enunciati da san Paolo, e che san Tommaso commenterà via via: al marito è prescritto l’amore per la donna, alla donna l’obbedienza al marito (Ef 5, 21 – 23). In breve, “l’uomo ami la moglie come se stesso e la moglie rispetti il marito”. A  questo punto è bene leggere una serie di testi che hanno, nell’insieme, uno sviluppo quanto mai logico, partendo dalle conseguenze del peccato originale: “Verso tuo marito sarà il tuo istinto ma egli ti dominerà” (Gn 3,16). «La donna fu punita nei due legami che ha con l’uomo: cioè nella generazione della prole, e nelle mansioni che le spettano nella vita domestica (…). Rispetto alla vita domestica la donna fu punita con l’assoggettamento al dominio dell’uomo: “Sarai sotto il potere del marito”.  (…) La donna deve sottostare al marito nella vita domestica» (ST II – II q. 164 a. 2). «La soggezione della donna al marito è un castigo non rispetto al governo della famiglia, poiché anche prima del peccato l’uomo sarebbe stato “capo della donna” (Cfr 1 Cor 11, 3; Ef 5, 23) e sua guida; ma in quanto la donna è costretta per necessità a sottostare al volere del marito, contro la propria volontà» (ST II – II q. 164, a. 2 ad 1) … ma uno è sottoposto al dominio di un altro come persona libera quando quest’ultimo lo indirizza al bene di chi è governato oppure al bene comune[6]: «Vi è una seconda sudditanza, economica o politica, in forza della quale chi è a capo, si serve dei sottoposti per il loro interesse e per il loro bene (…). E in questa sudditanza la donna è naturalmente soggetta all’uomo; perché l’uomo ha per natura un più vigoroso discernimento di ragione» (ST I q. 92 a. 1 ad 2). Da ciò segue: «…Era conveniente che la donna fosse formata con la costola dell’uomo. Primo, per indicare che tra l’uomo e la donna deve esserci un vincolo di amore. D’altra parte la donna “non deve dominare sull’uomo” (1 Tim 2, 12), e per questo non fu formata dalla testa. Né deve essere disprezzata dall’uomo come una schiava; perciò non fu formata dai piedi» (ST I q. 92 a. 3 co.). Ed anche «… affinché l’uomo, sapendo che la donna è uscita da lui, l’amasse di più e le fosse unito indissolubilmente. Perciò sta scritto: “Essa è stata tratta dall’uomo; per questo l’uomo lascerà il padre e la madre, e si stringerà alla sua moglie” (Gn 2, 23 – 24). E questo era necessario in modo specialissimo per la specie umana, in cui il maschio e la femmina devono convivere per tutta la vita, cosa che non avviene negli altri animali (…) perché, a detta del Filosofo, il maschio e la femmina si uniscono nella specie umana non solo per la necessità di generare, come negli altri ammali, ma anche per la vita domestica, nella quale l’uomo e la donna hanno funzioni distinte, e in cui l’uomo è capo della donna» (ST I q. 92 a. 2).

«La moglie, però, è “qualcosa del marito” con il quale “è diventata un’unica carne” (Cf 1 Cor 6, 16)» (ST Suppl. q. 56, a. 5 ad 2). Stando, dunque, alle parole di san Paolo, “il marito non è padrone del proprio corpo, ma lo è la moglie” (1 Cor 7, 4), tuttavia: «…il marito è soggetto alla moglie solo riguardo all’atto matrimoniale (actum naturae), in cui essi sono alla pari» (ST Suppl. q. 52 a. 3).

E, ritornando alla pregiudiziale di base, la moglie non può in questo essere equiparata al marito: «… dovendo il marito comandare la moglie e non viceversa, la donna è tenuta a seguire il marito e non al contrario» (ST. Suppl. q. 64 a. 4 ad 1).

Così, ad esempio, la donna dovrà chiedere al marito, tranne in caso di necessità, la possibilità di fare l’elemosina [7]. La moglie, come dice san Paolo, è sotto il potere del marito (Cf Ef 5, 23), ma è stata data all’uomo come compagna, “assumpta in viri societatem”, perciò: «…tra marito e moglie c’è la massima comunanza» (ST Suppl. q. 59 a. 1 co.) ed anche: «…a detta del Filosofo, il matrimonio è ordinato alla procreazione e all’educazione della prole, nonché a una comunanza di vita» (ST Suppl. q. 64 a.4 arg.1). Da qui deriva che il rapporto tra marito e moglie abbia un valore, anche giuridico. Superiore però é il diritto in senso pieno che si riscontra solo tra persone libere, nelle quali si verifica l’elemento fondamentale che è l’alterità: «La moglie invece, sebbene sia qualche cosa del marito, perché a detta dell’Apostolo (Ef 5, 28) è come il corpo di lui, tuttavia è più distinta dal marito che un figlio dal padre e un servo dal padrone: essa infatti entra a far parte di una certa vita associata nel matrimonio. Perciò, come dice il Filosofo, tra marito e moglie i rapporti di diritto sono più accentuati che tra padre e figlio, o tra padrone e schiavo. Siccome però marito e moglie hanno un rapporto immediato con la comunità domestica, come Aristotele dimostra, tra essi non c’è semplicemente il diritto civile, ma piuttosto un diritto economico o domestico» (ST II – II q. 57 a. 4 co.).

Ciò dimostra che essi non sono uguali in modo assoluto, bensì in maniera proporzionale: «Marito e moglie non sono uguali nel matrimonio: né rispetto all’atto coniugale, in cui la parte più nobile spetta al marito (qui l’autore del Supplemento si discosta da quanto ha detto precedentemente); né rispetto al governo della casa, in cui la donna deve accettarne l’autorità. Invece rispetto all’altro tipo di uguaglianza (di proporzionalità) essi sono alla pari in entrambi i casi: poiché come il marito è obbligato ad agire da marito verso la moglie rispetto all’atto coniugale e al governo della casa, così la moglie è tenuta verso il marito per i doveri che riguardano la moglie» (ST Suppl. q. 64 a. 2 co.). «Rispetto alla fedeltà, (…) i cui i coniugi sono alla pari» (ST suppl. q.62 a. 4 co.). Così, infine,  il rapporto della moglie con il marito dipende soprattutto dall’affetto «…della sposa che per amore si unisce al marito» (ST II – II q.19 a. 2 ad 3): «Dove si riscontrano più ragioni di amicizia, ci dev’essere un amore più grande. Ora, nell’amore coniugale ci sono più ragioni di amicizia: infatti il Filosofo spiega, che “in questa amicizia sembrano esserci l’utilità, il piacere e la virtù, se i coniugi son virtuosi”» (ST II – II q. 26 a. 11 arg. 3). Qui Tommaso insiste, indubbiamente, sulla complementarietà dell’uomo e della donna, ma siamo di fronte a due gravi restrizioni: la prima è che questa complementarietà è ristretta alla sola procreazione e di conseguenza alla riduzione, nei confronti della donna, del concetto di natura umana totale (essenzialmente caratterizzata da san Tommaso dalla ragione e dalla libertà) alla natura biologica della persona umana, facendo di essa una norma di moralità. La riduzione in questo caso si riferisce alla funzione della maternità della donna. Mettere al mondo un bambino e allevarlo sarà sempre uno degli atti più grandiosi dell’umanità, un atto nel quale vi è la più elevata collaborazione con Dio e che sarà sempre per la donna un titolo di gloria. Il problema non è questo. Sta nel fatto che si vorrebbe ridurre la donna ad una sola delle sue funzioni, sia pure molto nobile, fino a negarle, in nome di questo compito, diritti inalienabili della persona umana dei quali l’uomo si aggiudica il monopolio.

In questo caso, è molto espressivo il commento a Genesi 2,18: “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”: «Era necessario che in aiuto dell’uomo, come dice la Scrittura, fosse creata la donna: e questo, non perché gli fosse di aiuto in qualche altra funzione, come dissero alcuni, poiché per qualsiasi altra funzione l’uomo può essere aiutato meglio da un altro uomo che dalla donna, ma per cooperare alla generazione» (ST I q. 92 a. 1 co.). É evidente che qui il Dottore Angelico ha la sola preoccupazione di mettere in luce la funzione specifica del sesso femminile nell’ordine generale dell’universo, contro gli ingiustificati pudori di qualche esegeta che aveva cercato di spiegare con vari altri motivi per niente validi la creazione della donna. Ne segue così che la donna nel suo compito di madre è più essenziale dell’uomo, perché specialmente su di lei ricade il compito di educare la prole: «Sebbene il padre sia superiore alla madre, tuttavia i compiti della madre rispetto alla prole sono più assorbenti. Ciò si deve al fatto che la donna fu creata principalmente per questo, per aiutare l’uomo rispetto alla prole. L’uomo invece non fu creato per questo. Perciò rispetto al compito specifico del matrimonio la madre è più essenziale del padre» (ST Suppl. q. 44 a. 2 ad 1).

Tuttavia la cura del padre è indispensabile per l’educazione «essendo l’educazione un compito comune al padre e alla madre» (ST Suppl. q. 59 a. 1 co.) ed infine: «…perciò la prole quanto a libertà o schiavitù segue la condizione della madre. Invece quanto alla dignità personale, che deriva dalla forma, cioè nella nobiltà, nel luogo di origine, nell’eredità, ecc., segue la condizione del padre (…). L’onore dei figli deriva più dal padre che dalla madre» (ST Suppl. q. 52 a. 4 co.; ad 4).

LA DONNA E GLI ORDINI SACRI

Come corollario di tutto quanto si è detto fin qui, è opportuno considerare ciò che san Tommaso afferma circa il carisma della parola e la possibilità per le donne di ricevere gli ordini sacri o di avere qualche giurisdizione spirituale. Riguardo alla questione se il carisma della parola si addica anche alle donna, l’Aquinate si rifà in tutto a san Paolo sia quando dice: “Non spegnete lo Spirito, non disprezzate il dono della profezia” (1 Ts 5,19 – 20), riconoscendo la parità degli uomini come delle donne nel ricevere questo dono: “Ogni uomo che prega o profetizza… ogni donna che prega o profetizza…” (1 Cor 11, 4 – 5), e sia quando l’Apostolo, rispettoso più che altro delle esigenze dei costumi greci – i quali giudicavano “sconveniente”, “aiscròn”, per una donna parlare in pubblico – che spinto dal preteso residuo di antifemminismo semitico, che spesso gli si è voluto rimproverare, scrive: “Nelle assemblee le donne tacciano” (1 Cor 14, 34 – 35); ed altrove: “Alla donna non permetto di insegnare” (1 Tim 2,12). San Tommaso, dunque, risponde: «Le donne che abbiano ricevuto i carismi della sapienza o della scienza possono metterli a servizio degli altri nell’insegnamento privato, non già in quello pubblico (…). Prima di tutto e principalmente per la condizione del sesso femminile, che deve essere sottoposto all’uomo, come dice la Scrittura (Gn 3,16). Ora, insegnare ed esortare pubblicamente in Chiesa non appartiene ai sudditi, ma ai prelati (…). In secondo luogo, perché gli animi degli uomini non siano attratti alla libidine (…). Terzo, perché d’ordinario le donne non sono così perfette nel sapere da poter affidare loro senza inconvenienti l’insegnamento pubblico» (ST II – II q.177 a. 2 ad 3; co.). Alla donna, dunque, non è permesso insegnare pubblicamente. Tuttavia essa può istruire qualcuno con insegnamenti o avvertimenti privati; così non le è permesso battezzare pubblicamente e solennemente, potendolo pur fare in caso di necessità (ST IlI q. 67 a. 4).

Per il sacramento dell’ordine viene ribadito: «Per ricevere i sacramenti certe cose sono richieste quasi dalla natura stessa del sacramento (…). Il sacramento infatti essendo un segno, gli atti che lo compiono non devono soltanto produrre la grazia sacramentale, ma esprimerne il segno (…). Ora, poiché il sesso femminile non può esprimere nessuna eminenza di grado, essendo la donna in stato di sudditanza; è chiaro che non può ricevere il sacramento dell’ordine (…). Poiché in realtà rispetto alle cose dell’anima la donna non differisce dall’uomo, che anzi talora si trovano delle donne superiori a molti uomini rispetto all’anima, è evidente che essa può ricevere il dono profetico e altri consimili, ma non il sacramento dell’ordine» (ST Suppl. q. 39 a. 1 co; ad 1). Infine, poiché la donna è in stato di sudditanza, non può avere alcuna giurisdizione spirituale. Tuttavia, in alcuni casi come quello delle abbadesse viene affidato, ma solo per delega precisa e non ordinariamente, qualche atto nell’uso delle “chiavi” della giurisdizione come, per esempio, la correzione delle donne a lei sottoposte [9].

Anche per questo argomento ci sarebbe molto da spiegare e commentare, ma, per non prolungarci oltre, concludiamo dicendo che i motivi addotti da san Tommaso a sostegno di queste sue affermazioni sono tutt’ora gli unici ritenuti validi.

Francesco Pignatelli – © riproduzione riservata

[1] Cf anche ST I, q. 92, aa. 1 – 2; II – II, q. 154, a. 1 co.

[2] Cf ST II – II, q. 26, a. 10.

[3] Cf ST IlI, q. 32, a. 4 ad 2.

[4] Questo brano è tratto dalla risposta alla questione se nello stato primitivo sarebbero nate anche le donne.

[5] Un esempio indicativo di questi miti basati su superstizioni e che san Tommaso ha avuto il merito di ripudiare è l’orrore dei pagani verso il sangue mestruale che si credeva carico di malefici. Egli aveva cercato di abbozzarne una spiegazione scientifica il cui testo è stato riportato nel capitolo 2 (Cf ST III q. 31 a. 5 ad 1).

[6] Cf ST I q. 96 a. 4.

[7] Cf ST II – II q.32 a. 8.

[8] J. GEVAERT, Il problema dell’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica, Torino, Ed. Elledici, 1992, p. 81.

[9] Cf ST Suppl. q. 19 a. 4.