L’Arciconfraternita dell’Orazione e Morte

di Francesco Pignatelli

Nella storia religiosa di Roma, soprattutto a partire dal secondo Cinquecento, le confraternite e le associazioni lai­cali sono un nodo di importanza capitale. In esse è dato ri­trovare gran parte di quei caratteri che hanno poi costituito la cultura, la mentalità, la sensibilità religiosa della cit­tà nel suo avvicinarsi ai tempi moderni.

Potremmo rileggere trasver­salmente queste affermazioni, scorrendo le pagine seguenti ed ana­lizzando così, per quan­to possibile, la vicenda dell’Arcicon­fraternita dell’Orazione e Morte.


NASCE L’ ARCICONFRATERNITA DELL’ORAZIONE E MORTE

“Nell’anno del Signore 1538 – si legge nelle antiche edi­zioni degli statuti – alcuni devoti cristiani vedendo che molti poveri, i quali, o per la loro povertà, ovvero per la lonta­nanza del luogo in cui morivano, il più delle volte non erano sepolti in luogo sacro, ovvero restavano senza sepoltura, e forse cibo di animali, mossi da zelo di carità e pietà isti­tuirono in Roma una compagnia, sotto il titolo della Morte, la quale per particolare istituto facesse questa opera di miseri­cordia, tanto pia e tanto grata alla Divina Maestà, di seppel­lire i poveri morti” [1].

 Secondo la tesi piuttosto leggendaria del card. Cesare Baronio (1565) l’Arciconfraternita dell’Orazione e Morte sarebbe ancora più antica: infatti la sua isti­tuzione risalirebbe ad­dirittura all’imperatore Costantino [2].

Probabilmente già nei primi decenni del Duecento sorsero a Roma varie confraternite laicali con lo scopo di eseguire i funerali ed accompagnare i propri defunti. Questi sodalizi, nati per iniziativa di laici, organizzavano le celebrazioni funebri per proprio conto, senza riguardo alle norme, più o meno usuali del clero romano, a sua volta riunito in un impor­tante sodalizio clericale, la Romana Fraternitas. L’associa­zione riservata esclusivamente al clero pretendeva, tra l’al­tro, il monopolio dell’organizzazione funeraria. Di fronte all’insorgere di confraternite laicali ed un certo abuso di queste nei funerali, la Fraternitas invocò l’intervento di Gregorio IX perché ristabilisse il giusto diritto. Il papa rispose con una bolla il 26 ottobre 1237, ma nè questa nè l’atteggiamento intransigente della Fraternitas riuscirono ad impedire il sorgere di altre compagnie laicali in Roma, che svolgessero anche questa attività [3].

 A partire dal sec. XIII, dunque, l’opera di sepoltura è un compito tra i più importanti e duraturi nella vicenda della maggior parte delle confraternite, non solo romane; tuttavia è svolta unicamente per i membri del sodalizio stesso, non di chiunque altro. Questo aspetto affonda le radici in una diffu­sa mentalità anzitutto religiosa: la “Salus animarum”: scopo precipuo delle confraternite, si realizza con la partecipazio­ne in vita et in morte ai meriti delle buone opere e delle pre­ghiere dei consociati. La confraternita diviene una specie di mutua nel campo spirituale [4]. La prima confraternita romana che iniziò, in­vece, ad associare i morti non appartenenti al sodalizio è quella della Pietà dei Fiorentini in occasione della peste del 1448. Sempre nello stesso anno un penitenziere tedesco di S. Pietro, Gio­vanni Golderer, raccoglieva i suoi connazionali in una confraternita sotto il titolo di S. Maria della Pietà. Nel 1520 fu eretta da Leone X la confraternita di S. Girolamo della cari­tà, la quale, alla sua principale incombenza di assistere i carcerati aggiunse, all’inizio, anche quella della sepoltura dei morti [5].

 Solo molti anni dopo, quindi, nel 1538, fu fondata l’Arci­confraternita dell’Orazione e Morte, la prima a porsi esplici­tamente il compito di accogliere i cadaveri dei poveri, spe­cialmente quelli abbandonati fuori dalle mura della città, lungo le vie o gli agglomerati sper­duti della campagna romana o ritrovati nel Tevere.

Dei primi anni della compagnia non si sa molto: gli atti dell’attività della confraternita, prime fonti scritte in no­stro possesso conservate nell’Archivio storico del Vicariato di Roma (posizione 154 – 156), partono dal 1552, mentre i primi Sta­tuti risalgono al 1590 [6].

 Il sodalizio fu approvato da Giulio III nel 1552, e sem­brandogli la sola denominazione di “Compagnia della Morte” troppo tetra, vi aggiunse al titolo quella “dell’Orazione”, per il fatto che, già dal 1551, si soleva fare l’esposizione del Sacramento per quanrant’ore ogni terza domenica del mese. Pio IV con la bolla “Divina disponente clementia” del 17 no­vembre 1560 eleva l’istituzione ad arciconfraternita, che ha così la possibilità di ricevere elemosine e legati, erigere un proprio luogo di culto, aggregare i sodali dalle analoghe fi­nalità sparsi nelle città italiane ed in seguito europee, americane ed asiatiche [7].

 La compagnia, che inizialmente si radunava nella Basilica di S. Lorenzo in Damaso alla Cancelleria, nel 1552 passa a S. Caterina da Siena in via Giulia, poi ancora in S. Giovanni in Ayno e nel 1571 a S. Caterina della Rota.

 Nel 1572, il numero crescente degli iscritti, provenienti sia dalla nobiltà che dai ceti delle arti e mestieri, l’esi­genza di una sede stabile e decorosa spinse all’acquisto di un terreno in via Giulia. Qui verrà costruita la chiesa consacra­ta con il nome di S. Maria dell’Orazione e della Purificazio­ne. Questa chiesa col tempo risulterà insufficiente e nel 1733 verrà demolita e ricostruita su disegno di Ferdinando Fuga.

 L’ordinamento interno della confraternita non presenta dif­ferenze di rilievo rispetto a quello di tutte le altre. L’alta direzione disciplinare ed amministrativa dell’arciconfraterni­ta dipendevano dalla cosiddetta Banca costituita dalle mag­giori cariche della compagnia, quali il cardinale protettore, il monsignore governatore, i guardiani, il camerlengo ed il segretario. La confraternita avrà anche un provveditore dei morti che coordinerà l’attività della sepoltura dei morti, e dei fratelli sacrestani, i quali, oltre a svolgere le ordina­rie mansioni di questo ufficio, al­lestiranno annualmente i catafalchi funebri per la celebrazio­ne dell’ottavario dei de­funti [8].

MORTUUS SEPELITUR

L’istanza religiosa e la coscienza dei doveri socia­li del cristiano che principalmente muovono i devoti lai­ci che dal XII sec. si aggregano in confraternite, si incontrano con il movimento di trasformazione sociale, economico ed urbanistico della città medievale, nel tentativo di una vicendevole inte­razione.

Fin dal loro nascere le confraternite hanno tentato di ela­borare una spiritualità non astratta bensì modulata a ridosso del tessuto sociale contemporaneo. Lo schema associativo con­fraternale, per la sua posizione di frontiera tra il religioso e il sociale, appare, dunque, una fe­lice risposta alle esigen­ze, ai problemi ed alle stesse defi­cienze portate via via dal nuovo strutturarsi della città.

 Scopo essenziale e primario della confraternita religiosa sarà, come abbiamo detto, la “salus animarum”, cioè il bene spirituale ed eterno dei consociati, nonché i mezzi per con­seguirlo, come preghiere e buone opere.

Le confraternite “della buona morte” per lo più nascono nell’ambito del movimento penitenziale dei secoli XIII-XIV [9].

La sepoltura dei cadaveri, intesa come rito umiliante, è un modo di espiazione volontaria delle colpe. Si tratta di una penitenza che, liberamente compiuta, diviene meritoria. E con l’affermazione della teologia del Corpo mistico, avvenuta in questi secoli, è possibile estendere questi meriti a tutti, particolarmente ai poveri. L’attenzione verso quest’ultimi riecheggia la beatitudine promessa a coloro che compiono le “opere di misericordia” [10]. A Roma, ancora nel sec. XVI non esisteva un servizio fune­rario organizzato, pubblico o di un ente privato. Dovevano provvedere le singole famiglie al trasporto dei loro morti in chiesa per le esequie e la sepoltura nel cimitero della ri­spet­tiva parrocchia. Il problema sorgeva particolarmente grave ed urgente per tutta quella fascia di indigenti che, abbando­nati durante la loro vita, erano destinati all’abbandono anche dopo la loro morte. La carità che li aveva soccorsi nei biso­gni più immediati, doveva dunque estendersi anche all’estremo servizio del suffragio e del seppellimento dei cadaveri. Uni­camente quelle famiglie iscritte a qualche sodalizio, benefi­ciavano della carità dei confratelli per una sepoltura decen­te, ma nel caso di morti di famiglie miserabili doveva essere la carità dei passanti a provvedere. Scrive Phi­lippe Aries: “La sensibi­lità dell’epoca non si commuove gran che davanti all’alta mor­talità, ma non sopporta che i morti siano seppel­liti senza preghiere. Nelle comunità rurali anche i poveri avevano la sicurezza delle preghiere dei vicini e degli amici al loro trasporto, secondo gli usi più antichi. Ma nelle cit­tà, il cui sviluppo nel basso Medioevo fu tanto rile­vante, il povero o l’isolato (che poi è lo stesso) non dispo­neva più, nella li­turgia della morte, né dell’antica solida­rietà di gruppo, che si era mantenuta in campagna, né della nuova as­sistenza dei dispensatori di indulgenze e di meriti, preti, monaci e poveri della parrocchia (un “ordine” di pove­ri, che differiva dalla miserevole condizione dell’isolato). Veniva seppellito dove moriva, non sempre in terra benedetta, almeno prima del sec. XVI. Per questa ragione le confraternite si assunsero l’obbli­go di seppellirlo con le loro preghiere. I confratelli si sostituivano dunque alla fortuna inesi­sten­te del defunto” [11].

Tuttavia la cura dei defunti, la tumulazione delle salme, la gestione dei luoghi funerari fu sempre considerata una que­stione strettamente inerente alla pietà, alla carità cristia­na, più che un affare di natura pubblica o civile.

ATTIVITA’ ASSISTENZIALE DELLA CONFRATERNITA

 Attorno all’impegno sociale che era stato assunto venne strutturandosi la vita della confraternita, che stabilì fun­zioni e norme preci­se, sia per esercitare efficacemente i servizi funerari, sia per procurare i mezzi necessari.

 Essendo il seppellire i morti cosa molto faticosa – leg­giamo dagli Statuti – si decise di affidare ad un provveditore dei morti l’organizzazione e la cura di quest’opera. Egli ave­va la incumbenza di far seppellire i cadaveri di tutti quelli poveri, che non avevano lasciato il modo di poter essere sep­pelliti, tutte le volte che ne sarà ricercato da qualche per­sona, come anco di far seppellire i nostri fratelli e sorelle [12].

 In un opuscolo del 1763 che si presenta come un piccolo vademecum spirituale per i confratelli dal titolo: “Idea della venerabile Archiconfraternita di S. Maria dell’Orazione e Mor­te di Roma” [13], vi troviamo interessanti specificazioni: la con­fraternita si impegna a seppellire i morti che si trovano …per le campagne e i luoghi pubblici, posti in abbandono, come che tutti i poveri delle parrocchie gratis: ed acciocchè resti certificata la povertà dei defunti, se ne riceve dal parroco la fede in iscritto, la quale poi si presenta all’uf­fiziale della compagnia, chiamato il provveditore dei morti. A questi i fratelli vanno processionalmente vestiti con i sac­chi, per riceverli, e per dar loro sepoltura; e cantano per essi l’uffizio dei morti. Né si stende questa carità solo nel­la città, ma (ci che riesce di molta edificazione) vanno anche fuori di molto spazio, al caldo, al gelo, alla pioggia e ai venti, per le vie, per le vigne dei campi; occorrendo tal­ volta (massimamente nei maggiori caldi) di averne otto o dieci per giorno; e li seppelliscono con molta carità e divozione. Pri­ma, invece, poteva accadere che …in tempi calamito­si, mo­rendo alcun povero, il quale non aveva lasciato il modo da poter essere sepolto, veniva per pietà di alcuni divoti con limosine raccolte a quest’effetto, portato da un facchino so­pra una tavola a Campo Santo; e qualche volta occorreva (il che era contro la carità cristiana) che vedevasi qualche pove­rello morto, posto nella via pubblica; acciocchè qualche per­sona dabbene che si fermava attorno al cadavere, ricercasse tante limosine che bastassero per farlo portare a seppellire [14].

 Alla confraternita spettava, dunque, in diritto di “asso­ciare” i cadaveri dei poveri defunti e seppellirli nelle pro­prie parrocchie o cimiteri con licenza ed intervento del par­roco. Qualora questi ricusasse d’intervenire, era tenuto in ogni modo, ad aprire le porte della chiesa ai fratelli e for­nirli dell’occorrente per la tumulazione.

 I parroci o i rettori delle chiese avevano comunque il do­vere di seppellire i cadaveri dei poveri defunti. Qualora, per varie ragioni, non lo avessero fatto, entro un certo arco di tempo dal momento in cui si era venuti a conoscenza della sepoltura da compiere, a questa dovevano pensarci “d’uf­ficio” la confraternita, e, in caso di rifiuto o di resisten­za, que­sta aveva la licenza di aprire le chiese o farle aprire nel miglior modo possibile. Per i cadaveri degli uccisi la confra­ternita poteva procedere alla tumulazione senza licenza o in­tervento dei rispettivi parroci. I cadaveri rinvenuti in cam­pagna potevano essere sepolti dove i “fratelli” ritenevano pi opportuno. Intanto i parroci rurali si lamentavano contro il privilegio dell’arciconfraternita di seppellire i morti in campagna; e questa, viceversa si lamentava contro i parroci perché spesso seppellivano i cadaveri prima che essa giungesse sul luogo. I dissidi tra arciconfraternita e parroci si atte­nueranno ed anzi l’associazione e la sepoltura dei poveri, morti in città, fu ben presto a cuore anche alle altre confra­ternite di Roma, ed in seguito furono esplicitamente imposte ai parroci [15].

 Sullo sfondo di queste questioni di diritto e controversie velate e non possiamo fare una importante considerazione. La struttura religiosa del corpo confraternale, favorisce negli associati la crescita della coscienza di aver raggiunto una nuova posizione anche in campo ecclesiale ed il relativo mag­gior peso che in questo contesto possono esercitare. Ed è forse, – afferma Vincenzo Paglia – in questa scalata religio­sa, che ha origine una certa libertà e spesso una rivalsa con­tro il clero [16].

 Ogni anno, la confraternita, per la festa di tutti i Santi, faceva affiggere alle porte della città e delle contrade più frequentate un editto, sormontato dal proprio stemma, con il quale, rammentando lo scopo della istituzione, invitava tutti i cittadini a comunicare l’esistenza di poveri morti sia in città che fuori.

 Quando si ignoravano le generalità di un cadavere, lo si portava per le piazze più frequentate e lo si esponeva per ottenerne il riconoscimento.

 La rilevanza sociale di quest’opera di carità è evidente dal numero di cadaveri sepolti, come dichiarano i documenti dell’archivio. Ad esempio vi leggiamo che nell’anno santo del 1625 la compagnia ha seppellito n.66 morti in campa­gna e 50 in Roma… e per gratia di Dio è stata poca mortalità, che altri anni sono stati da 200 in 250 morti, e spesso passa 300 e molte volte ci è occorso che si trovano a non essere morti [17]. Quest’ultima annotazione del cronista ci suggerisce l’estrema utilità del servizio, as­sieme alla fatica che com­portava per compierlo. A volte, era­no erano ancora vivi i mal­capitati a cui si portava soccorso, così come, anche insieme a qualche cadavere, potevano trovarsi persone in fin di vita o bambini abbandonati, ai quali, in seguito, si provvedeva per una decente sistemazione. Sono in­teressanti a questo riguardo le cronache riportate nel regi­stro dell’attività della confra­ternita, che illustrano diversi aneddoti, alcuni leggendari, altri autentici, spesso inseriti in una caratteristica atmo­sfera miracolosa. Minore consistenza, ma più prestigiosa nei confronti delle attività sopra descritte, ha la prerogativa di liberare an­nualmente un condannato a morte o alla galera, dietro il paga­mento di una cauzione che la confraternita pagava con una som­ma adeguata proveniente dalla famiglia del reo proporzionata al proprio reddito, oppure con elemosine raccolte all’occor­renza. Il primo, Giuliano Ricci, colpevole di assassinio, è liberato il 3 giugno 1584. Fino al 1597 tale liberazione av­viene il lunedì dell’ottava del Corpus Domini. Paolo V nel 1611 ne sposta la data al 2 novembre. Tale privilegio, sop­presso da Inno­cenzo X nel 1644, è ripristinato da Clemente XII, nel 1730, limitatamente per coloro che non sono condanna­ti per omicidio o per furto. Pio VII, nel 1800, abroga per tutte le confraternite, tranne che per quella di S. Giovanni Decollato, questa con­suetudine; tuttavia la confra­ternita con­tinua a chiedere la grazia, che ottiene, per l’ul­tima volta, l’8 settembre 1867.

 Dall’Arciconfraternita venivano raccolte delle elemosine anche per il riscatto e la liberazione dei prigionieri delle carceri del Campidoglio, dove si trovavano i detenuti per de­biti.

Rilevante è, infine, il movimento delle doti erogate an­nualmente alle ragazze povere, ricavate da un buon numero di eredità alcune delle quali molto consistenti.

Alle spese occorrenti per le sue attività, che non erano indifferenti, la confraternita faceva fronte con offerte, la­sciti ed elemosine. Quest’ultimo tipo di entrata era ottenuto attraverso il sistema consueto delle bussole poste nei luoghi pubblici (come bettole ed osterie) della città e della campa­gna, e attraverso la questua effettuata dai confratelli. Par­ticolarmente cospicue erano le elemosine raccolte nei giorni dell’ottavario dei defunti davanti alle chiese di S. Gregorio al Celio, di S. Paolo fuori le mura, ed alla Scala Santa. Anche le bussole davano buoni risultati, sottoposti tuttavia a forti oscillazioni ed alla “concorrenza” di quelle di altre confraternite… .

 Nel 1817, è curioso l’episodio del cantastorie Pasquale Lalli, che – leggiamo dagli atti – per mezzo della sua indu­stria del canto e delle canzoncine spirituali, particolarmente eccitanti la devozione verso le benedette anime del Purgato­rio, raccoglie non poche elemosine per la celebrazione di suffragi nella confraternita [18].

FINE DELL’ATTIVITA’ DELLA CONFRATERNITA

 Abbiamo accennato che, normalmente, la tumulazione avveniva nelle chiese più prossime al ritrovamento dei cadaveri. Le più impegnate erano la basilica di S. Agnese alle Fornaci, S. Ce­cilia in Trastevere, S. Lazzaro al Trionfale ed altre chiese e basiliche immediatamente a ridosso di campagne e periferie, oltre al cimitero della confraternita stessa posto sotto la chiesa.

 Le pestifere esalazioni che si sprigionavano dalle sepoltu­re delle chiese, tanto che l’autorità ecclesiastica spesso doveva ricorrere alla loro temporanea chiusura, aveva indotto Pio VII a radicali riforme, che, per i rivolgimenti politici, furono in gran parte effettuate dal governo napoleonico [19]. Si scelsero da principio dunque due zone: una ad est della città, l’antico campo Verano, e l’atra ad ovest a ridosso del­la pineta Sacchetti. Con la restaurazione del governo pontifi­cio, solo il progetto di costruzione del cimitero del Verano fu condotto in porto. Siamo nel 1832. Anche l’arciconfraterni­ta costruirà nel 1890 un’apposita cappella in sostituzione del proprio cimitero “cittadino” ormai non più agibile [20]. Tuttavia già dal 1836, per evitare lo spettro del colera che infe­stava in diverse regioni italiane, Gregorio XVI impose defini­tivamente la chiu­sura di tutti i cimiteri privati degli ospe­dali, delle chiese e di altre istituzioni, nonché le disposi­zioni emanate lo stesso anno per la tumulazione dei cadaveri. La costruzione di un unico cimitero per la città, dunque, minò profondamente il primato della gestione della morte che era appannaggio delle confraternite, anche se l’Arciconfraternita dell’Orazione e Morte accompagnerà i cadaveri sino al 1896.

 Venendo meno lo scopo fondamentale dell’istituzione, inco­mincia il rapido declino del sodalizio; si riduce, infatti, il numero degli iscritti, fin quasi ad annullarsi (attualmente se ne contano solo tre o quattro), e parallelamente si sviluppa la crisi economica ed il conseguente dissolversi del patrimo­nio immobiliare [21].

 

SPIRITUALITA’ E DEVOZIONI PARTICOLARI

 La caduta della funzione sociale spinse i sodalizi, come l’Arciconfraternita dell’Orazione e Morte, a rivalutare il compito devozionale.

 Tuttavia, come tutte le altre aggregazioni confraternali, l’Arciconfraternita dell’Orazione e Morte, fin dal suo nasce­re, ha avuto strettamente legate alla sua attività sociale e caritativa tradizioni, devozioni e pra­tiche di pietà pecu­liari.

 Tenendo dunque presente la chiara finalità religiosa di ogni confraternita è interessante quanto vi è affermato nel volumetto “Idea della venerabile Archiconfraternita…”, di cui abbiamo parlato sopra: Quelli che entrano in una confraternita, non vi si impegnano se non per buoni motivi, che sono la gloria di Dio, la propria santificazione e la salute del prossimo.

 Peraltro secondo questa sensibilità religiosa ci si poneva come primo obbligo l’adempimento dei doveri generali e parti­colari e personali del proprio stato. Imperochè le opere di precetto devono sempre precedere quelle che sono di puro con­siglio; ed è una grande illusione trascurare le prime ed ab­bracciare le seconde.

 Circa l’abito dei fratelli ed il suo significato, sono illuminanti alcune considerazioni: Quando si entra in una confraternita, l’uso è di portare qualche con­trassegno che distingua i confratelli; per esempio una Morte, un rosario, uno scapolare, un cordone, una cintura di cuoio, o qualche altra cosa. Quelli che portano tali con­trassegni, de­vono guar­darli come avvertimenti continui a vive­re con edifi­cazione e con pietà; e conformarsi alla intenzione della con­fraternita che hanno abbracciata (…). Sarebbe per un grave inganno, il far consistere tutta la pietà in questo senso e­sterno, e non attendere allo spirito dell’istituto che si ab­braccia da noi [22].

 Ai confratelli si raccomanderà di pregare “in ogni azio­ne” per le anime dei fratelli e delle sorelle dell’Arciconfra­ternita, e per tutti quelli che si ritrovano in purgatorio; anzi esorteranno caldamente tutti i capifamiglia iscritti alla compagnia di far partecipare a questa particolare preghiera anche i propri familiari. Singolare è la Messa cantata cele­brata con solennità il giorno dei defunti. All’offertorio, dopo aver pregato per i benefattori, verranno letti i nomi di tutti i morti sepolti in tutto l’anno. Segno di una solidarie­tà spirituale che si afferma con decisione nell’invitare i fratelli a pregare anche per gli infermi ed agonizzanti.

Già si è accennato il motivo per cui Giulio III aggiunse la denominazione “dell’Orazione”, cioè, quando la confraternita adotta l’uso delle Quarant’ore introdotta a Roma da un confra­tello sacerdote, Gaetano Marcantonio Fusco. Dando vita a que­sta pia pratica, del resto assai diffusa in epoca post-tri­dentina tra le confraternite romane, il sodalizio stabilisce che 48 fratelli si dovranno alternare nell’adora­zione nottur­na: è così istituito il Numero del sovvenimento o Numero della notte, che inizia le sue pratiche devote il 29 settem­bre 1565; il 14 maggio 1594 il Numero del sovvenimento sale a 72 confratelli; e nel 1610 se ne aggiungono altrettanti che vengono così a formare il Numero del giorno.

 Infine, non è da trascurare, la solennizzazione dei fune­ra­li. I fratelli della compagnia vi partecipano tutti, sotto­li­neando in tal modo il prestigio sociale acquisito. Tuttavia l’in­te­resse c’era anche perché normalmente a questo gesto erano le­gate le indulgenze: …tutti li fratelli e le sorelle che anderanno a seppellire li Morti, o li accompagneranno alla sepoltura guadagneranno 20 anni d’Indulgenza ed altrettante quarantene [23].

LE SACRE RAPPRESENTAZIONI

Se l’associazione dei morti costituisce l’iniziativa assi­stenziale più importante della confraternita, strettamente legata ad essa è, come abbiamo visto, la celebrazione dell’ot­tavario di preghiere per i defunti durante il quale, oltre ad un più intenso programma di celebrazioni liturgiche e di pra­tiche devote, si eseguono oratori musicali e si allestiscono catafalchi artistici e sacre rappresentazioni, talvolta alla presenza del pontefice e di dignitari di passaggio per Roma.

 Prima di addentrarci nei particolari sono d’obbligo alcune considerazioni circa l’origine ed i rapporti intercorsi tra questo tipo di manifestazioni e le confraternite in genere.

 La sacra rappresentazione si aggancia, se non proprio desi­gna, tout court, il teatro religioso del Medioevo, che si svi­luppò più intensamente durante i sec. XIII-XVI.

 Già nel 1165 troviamo a Nieport in Fiandra una società di vinders, cioè di trovatori che compongono odi alla Madonna. Dal Duecento in poi analoghe confraternite della Normandia e della Piccardia si radunavano una volta all’anno per recitare le loro poesie in pubblico su di un puy, cioè podio o palco, e perciò venivano chiamate confréries du puy de Notre Dame [24]. Nel sec. XIV esse organizzavano anche i cosiddetti Misteri. La parola raddoppiava il senso di mysterion sull’etimo di ministerium, ed indicava un’“azione”, una “rappresentazio­ne”, con un significato che è di derivazione ecclesiastica (per il senso corrisponde all’italiano funzione, allo spagnolo auto, una specie, cioè di officium, con cui si designa il cul­to pubblico, che è esso stesso un’azione rappresentata). Que­sti Mystéres saranno dunque rappresentazioni teatrali di ca­rattere religioso, messinscene dell’Antico e del Nuovo Testa­mento, di qualche miracolo della Madonna o di una delle sette gioie della Vergine l’esposizione dialogata e mimetica della vita dei santi. In Italia, risalendo al sec. XIII, con la costituzione di compagnie laicali di “disciplinati”, che esprimevano il loro culto cantando Laude e inscenando rap­presentazioni in volgare. In seguito, prender piede e si e­stender lo stile dei Misteri francesi, sebbene, a differenza di questi, per la di­retta influenza del fran­cescanesimo, cui si ricollegano i pri­mordi della Lauda e del Presepe, sarà for­te la preoccupazione più di edificare che di illustrare.

 Sarà in seno alle confraternite che il fenomeno della sacra rappresentazione troverà un fertile futuro: alla base di que­sto vi è, evidentemente, anche, una mentalità con­fraternale: l’a­dunanza prende coscienza del suo destino soprannaturale cele­brando tutti insieme l’avvenimento della storia sacra il­lu­strato. La musica vi ha gran parte: tocca al tono musicale, pi eloquente della parola, la definizione del sentimento collet­tivo e dei caratteri [25].

 L’Arciconfraternita dell’Orazione e Morte si serviva, dun­que, di predicazioni, di oratori sacri e delle rappresentazio­ni dei misteri i soprattutto in quanto costituivano dei vali­di momenti di trasmissio­ne e di risonanza. I confratelli in­fatti volentieri cercavano di coinvolgere nella loro sensibi­lità tutti coloro che accostavano: il numero piuttosto ele­vato dei partecipanti sta ad indicare il richiamo di queste devozioni. I documenti relativi a esecuzioni musicali sul tema della Passione del Signore non vanno più in là del primo Seicento, benchè si ritenga siano più antiche.

 Anche sulle rappresentazioni i documenti sono tardivi, del­la seconda metà del sec. XVIII, ma molto interessanti [26]. Tali scenografie si svolgono normalmente nel cimitero sot­terraneo della Chiesa, in un ambiente che, già macabro per se stesso, è ulteriormente appesantito da decorazioni di parti di scheletri e da cartelli ammonitori [27]. In un primo momento le rappresentazioni consistono nell’esposizione di tele di­pinte illuminate da lumi nascosti. Dal 1790 si introducono statue di cera di­pinte e addobbate che illustrano scene de­sunte dalla Scrittu­ra. I temi sono naturalmente, quelli con­sueti della morte, del giudizio eterno, della liberazione del­le anime del purgatorio; per esempio: La resurrezione di Laz­zaro, la sepoltura di Giuditta, David implora da Dio la fine della peste, la resurrezione del figlio della vedova di Naim, Tobia che abbandona il pranzo per seppellire un morto. Vi sono anche delle scene allegoriche come quella del giudizio univer­sale o quella che ammonisce che tutti dobbiamo morire. Tra le più rappresentate vi è la scena della liberazione di San Pietro dal carcere [28]. La spiegazione delle scene è affidata a i­scrizioni e a tavole incise che vanno collocate presso le rap­presentazioni. Tali tavole venivano poi riprodotte in molte copie e distribuite ai confratelli ed ai devoti dietro versa­mento di un’elemosina. Tra gli artisti che interpellati per creazione di questi quadri, possiamo notare anche nomi di spicco tra cui, Bartolomeo Pinelli.

Tuttavia dobbiamo tener presente che, per esempio, nel 1812, nella richiesta al Prefetto di Roma per ottenere il per­mes­so di eseguire la rappresentazione de: “La morte di Sisara con …la dovuta sottomissione agli ordini dell’E. V., in non permettere, che veggesi agli occhi del pubblico vestigio alcuno di ossa, già dalla medesima E.V. proibiti…” [29].

 Questo grande impegno, anche finanziario, della confrater­nita si esaurisce con il rivolgimento politico della fine del­l’Ottocento. Le rappresentazioni cessano nel 1871, anche se non mancano tentativi per ripristinarle, una prima volta nel 1885 con la messa in scena della Visione di Ezechiele, ed an­cora, nel 1898, in occasione del nono centenario della commemo­razione dei defunti durante il pontificato di Leone XIII quan­do la confraternita fece rappresentare la Visione di Odilone abate di Cluny.

CONCLUSIONE

 La Confraternita della Orazione e Morte, tra le più impor­tanti di quelle romane, certamente ha segnato la mentalità dei vari ceti della città. Se poi, come abbiamo accennato, si con­sidera l’enorme diffusione in Italia e fuori (le compagnie aggregate alla arciconfraternita romana superano il migliaio) si comprende quale rilevanza questo sodalizio abbia avuto nel­la formazione di un determinato atteggiamento di fronte alla morte. C’è un cambiamento radicale di prospettiva, poiché non si tratta più di nascondere o di demonizzare la morte (e con essa la debolezza, la fragilità e la realtà dei più bisognosi), ma di inserirla nell’economia della salvezza cristiana che passa per le vie della solidarietà, della misericordia e della carità disinteressata come sarà quella delle confraternite.


[1] M. CHIABO’ – L. ROBERTI, L’Arciconfraternita di S. Maria del­l’Orazione e Morte inventario dell’archivio, in AA.VV., Sto­rio­grafia e archivi delle confraternite romane, a cura di L. FIORANI, Roma 1985, (Ricerche per la storia religio­sa di Roma, 6), p. 109

[2] Cf CHIABO’ – ROBERTI, p. 109.

[3] Cf V. PAGLIA, La morte confortata, Riti della paura e mentalità religiosa a Roma nell’et moderna, Roma 1982, (Bi­blioteca di storia sociale, 11), p. 45 – 46.

[4] Cf PAGLIA, p. 46, Cf P. ARIES, L’uomo e la morte dal medioevo ad oggi, [Bari] 1980, p. 213.

[5] Cf PAGLIA, p. 48.

[6] Cf CHIABO’ – ROBERTI, p. 109.

[7] Cf CHIABO’ – ROBERTI, p. 110.

[8] A. BEVIGNANI, L’ arciconfraternita di S. Maria dell’Orazione e Morte in Roma e le sue rappresentazioni, in “Ar­chivio del­la Società romana di storia patria”, XXXIII, Roma 1910, p. 40 – 41.

[9] Tuttavia è doverosa qui una distinzione preliminare. Affer­ma Giuseppe Alberigo: “…i disciplinati (movimento peniten­zia­le per eccellenza), preferivano mantenersi su un piano a­scetico-morale, piuttosto che impegnarsi nella vita della Chiesa (…). Ora, allontanatisi i motivi millenaristici, sospeso il terrore della peste e allentata la lotta delle fa­zioni, si presentava in tutta la sua imponenza il problema della crisi che la Chiesa attraversava in questo “periodo di riforme” (…). Per i disciplinati italiani si trattava di seguire sviluppi finora inavvertiti, che erano rimasti in om­bra entro i loro stessi motivi ispiratori”.

Da questo momento, dun­que, “…le confraternite si pongono il problema della vita spirituale e morale dei loro soci in tutta la loro interezza. Esse iniziano un’opera di supplenza alla carenza della cura d’anime, che durerà quasi un secolo (…). Per queste vie il laicato riuscir ad esercitare una pressione imprevedibile su tutto il moto di riforma della Chiesa riproponendo il bisogno di una vita cristiana ed eccle­siale che superasse l’indivi­dualismo religioso sempre più dif­fuso e attingesse nuovamente ai valori comunitari e liturgici del primo millennio cristia­no”. G. ALIBERIGO, Contributi alla storia delle confraternite dei Disciplinati e della spiritualità laicale nei secoli XV-XVI, in “Il movimento dei disciplinati nel settimo centenario del suo inizio (Perugia 1260)”, Perugia [1962], p. 199 – 200; 200 – 201.

Sul problema delle opere di misericordia legate al movimento confraternale; Cf anche PAGLIA, p. 29 e G.G. MEERSSEMAN, Ordo fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo, I, Roma 1977, p. 971.

[10] L’elenco delle “opere di misericordia corporale” così come lo conosciamo, ci è pervenuto, insieme a quello delle “opere di misericordia spirituale”, dai primi catechismi sorti nel periodo post – tridentino. Di qui dunque l’elenco e la nume­razione: dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli asse­tati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati, seppellire i morti.

Queste opere di carità verso il prossimo sono dedotte dalla perico­pe del giudizio finale di Mt. 25, 35-37, nella quale, in per­sona dei poveri e degli afflitti, è visibile il Signore che ricompenserà il giusto nel giorno del giudizio. In realtà però queste sono sei. In base al libro di Tobia (6,12) la tradizione cristiana vi aggiunge la settima: mortuus sepeli­tur, seppellire i morti (Cf F. TILLMANN, Il Maestro chiama. Compendio di morale cri­stiana, [Brescia] 1953, p.324 – 325 (430 p.); G. DE LUCA, Misericordia. Le opere di misericordia, “En­ciclopedia Italiana”, XXIII, Roma 1951, p.435 – 436). Questa non rien­tra ancora nella lista delle opere di misericordia nello Speculum Ecclesiae di Onorio di Autun (prima metà del sec. XII) (MIGNE, PL 172, 541-738). E’ menzionata, invece, nel Rationale divorum officiorum del liturgista e teologo Jean Beleth (1118) (MIGNE, PL 202, 167) e nell’omonima opera di Guilamme Durand (1230) (Cf P. ARIES, L’uomo e la morte dal medioevo ad oggi, [Bari] 1980, p. 212). La sua comparsa nell’iconografia è contem­pora­nea delle confra­ternite: nel Trecento la troviamo sul por­tale della Chiesa di S. Maria della Salute a Viterbo, sorta nel 1330, e sul basso­rilievo del campanile di Giotto di Firen­ze, progettato nel 1334. A partire dal Quattrocento la sua rap­pre­sentazione diventa più che comune. Le prime sei opere di misericordia, nella caratterizzazione dei singoli enunciati evangelici, entrano, invece, nel repertorio iconografico del­l’arte cristiana, molto prima, verso il Mille. La loro prima raffigurazione si trova in un avorio ottoniano del British Mu­seum: la coper­tina del salterio detto della regina Melisenda (1050) in cui è il re David che compie le sei opere di miseri­cordia secondo l’ordine indicato da san Matteo (Cf L. M. BONIFAZI, Misericordia. Le opere di misericordia nell’arte, “En­ciclopedia cattolica”, VIII, [Città del Vaticano, 1952], p. 1084 – 1085; ARIES, p. 212).

[11] ARIES, p. 214.

[12] PAGLIA, p. 49.

[13] Cf PAGLIA, p. 46.

[14] Cf PAGLIA, p. 49 – 50.

[15] Cf BEVIGNANI, p. 25 – 27.

[16] PAGLIA, p. 61.

[17] PAGLIA, p. 50.

[18] CHIABO’ – ROBERTI, p.112

[19] L’Editto di Saint Cloud del 1806 non fa che riprendere il decreto del Parlamento francese del 1763 emanato per la stessa ragione: tutti i cadaveri dovevano essere seppelliti presso cimiteri pubblici, fuori dalle mura cittadine e le pietre tom­bali e gli epitaffi erano soggetti alla revisione dei magistrati. Tali disposizioni erano già vigenti, per esempio, sotto il governo austriaco. Cf anche ARIES, p. 583 – 584.

[20] Tra il 1886 ed il 1887, a causa dei lavori per la costruzione degli attuali muraglioni a ridosso delle sponde del Teve­re, questo cimitero sotterraneo venne demolito.

[21] Cf CHIABO’ – ROBERTI, p. 113.

[22] PAGLIA, p. 61.

[23] PAGLIA, p. 48.

[24] Queste “associazioni” come, ad esempio, quella della Madonna, sorta nel 1343 a Ratibor (Boemia), che era una società a scopo prevalentemente let­terario, non possono essere considerate tuttavia delle confraternite nel vero senso della parola.

[25] Cf S. BATTAGLIA, Sacra rappresentazione, “Enciclopedia italiana”, XXX, Roma 1949, p. 411 – 413; Cf MEERSSEMAN, p. 9 – 10.

[26] BEVIGNANI, p. 45 – 46.

[27] In questa tendenza, diremmo quasi, verso un vero e proprio gusto del macabro, coesistono due atteggiamenti. Da una parte si tende ad allontanare la paura della morte: queste manifestazioni assorbono e imbrigliano l’evento. La morte in tal modo non è più l’irrazionale che si abbatte sugli uomini, che li divide. Diventa un momento singolare di ricomposizione, assume i tratti della familiarità.

Nello stesso tempo c’è un senso di paura che si vuole inculcare: è quasi un rimproverare la facile dimenticanza della morte e l’insufficiente timore che si ha verso di essa. Questa paura che si vuole insinuare non è diretta alla morte come tale, ma al suo essere momento decisivo da cui dipende la salvezza o la perdizione eterna. Cf PAGLIA, p. 15; 52; 69 – 70; 124.

[28] Curiosa la notizia riportata da Philippe Aries (sebbene senza alcuna documentazione storica) secondo cui per la messa in scena di uno di questi qua­dri, che veniva­no poi ri­prodotti sotto forma di incisioni, ci si servì di cadaveri veri per la rappresentazione del purgatorio. Cf ARIES, p. 449 – 450.

[29] BEVIGNANI, p. 152 – 153.


Francesco Pignatelli
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