Mysterium paschale

Introduzione e sintesi del saggio di Hans Urs von Balthasar: Mysterium paschale

di Francesco Pignatelli

 

Nel dare inizio alla lettura di un saggio è necessario possedere una visione d’insieme del pensiero dell’Autore. Data questa premessa, nel nostro caso, Hans Urs Von Balthasar ci facilita il compito poichè in ogni parte del suo “sistema” resta sempre fedele a quella che è una delle sue note caratteristiche: la sua visione di globalità. Accingendoci dunque a cogliere anche qui il tutto nel frammento, va detto solo che il Mysterium paschale costituisce, se non la sintesi, uno dei temi centrali della cristologia del teologo di Lucerna.

Il saggio Mysterium paschale[1] si articola in cinque sezioni:

  1. Incarnazione e passione (ordinamento della incarnazione alla passione. La kenosi e la nuova immagine di Dio.
  2. La morte di Dio considerata come luogo originario della salvezza, della rivelazione e della teologia.
  3. Il cammino verso la croce (Venerdì santo): l’esistenza di Gesù è sotto il segno dell’obbedienza al Padre e della croce. Da­vanti alla passione Gesù è libero, consapevole e disponibile (Eucaristia e consegna). La croce – in cui Gesù sperimenta l’abbandono come massimo allontanamento da Dio – diventa giudizio di giustizia e giustificazione per il mondo. Dalla contemplazione del “cuore aperto” lo sguardo si estende alla Chiesa (la Chiesa della croce) ed alla dimensione trinitaria della Croce (croce e Trinità).
  4. Nel cammino verso i morti (Sabato santo) è illustrato quale sia il significato del silenzio che intercorre tra la morte e la risurrezione: Gesù morto si fa solidale con i morti nello stato dello Sheol ed in questa solitudine estrema si presenta come vincitore della stessa “seconda morte”.
  5. Il cammino verso il Padre (Domenica di risurrezione) svolge il tema propriamente pasquale della risurrezione dai morti.

INCARNAZIONE: EVENTO DISCENDENTE E DINAMICO

Nella sua riflessione cristologica, Von Balthasar si pone in un punto privilegiato di osservazione: la teologia giovannea: la cristologia del Verbo incarnato, del Figlio di Dio e del Figlio dell’Uomo; la sovranità ieratica e gloriosa di Gesù; l’accenno sulla cristologia “dall’alto”[2] e sull’obbedienza al Padre; la struttura del descensus e dell’ascensus; infine quella visione di globalità incentrata nel Cristo, gloria e irradiazione della gloria del Padre[3].

Come Giovanni, anche Von Balthasar sintetizza nell’Ora pasquale tutto il fatto/evento storico dell’esistenza terrena di Gesù: è la consumazione della discesa del Verbo e del suo passaggio o risalita alla gloria, al Padre. Tutta la vita di Gesù è, insieme, un discendere ed un risalire del Figlio dell’Uomo, una venuta al mondo per il ritorno al Padre: il primo aspetto è inscindibile dall’altro: tale è l’intuizione profonda di Von Balthasar: è l’uscita stessa che è il ritorno[4].

Nell’ora del passaggio, quindi, l’incarnazione si completa e si adempie. La Pasqua, perciò non costituisce un polo di tensione nei confronti dell’incarnazione, veduta solo come il farsi carne del Verbo, distinto da quello della croce e della risurrezione. E la croce non è solo la conseguenza del modo terreno di vivere di Gesù bensì il fine stesso dell’incarnazione; non è un’aggiunta ma la meta verso cui tende l’avvenimento di Cristo. Tra incarnazione e croce non si può che parlare di identificazione: chi dice incarnazione dice croce. In questa affermazione teologica Von Balthasar respinge con vigore due “miti”: quello, proprio di una certa teologia greca, di restringere la “redenzione” essenzialmente all’incarnazione tanto da fare della croce una specie di “epifenomeno”, qualcosa di accessorio; ed il “mito” moderno dell’“incarnazionismo”, la scelta di un cristianesimo incarnato: proposta nel deserto da Satana al Signore, il quale gli oppone la scelta un cristianesimo crocifisso.

LA KENOSI E LA NUOVA IMMAGINE DI DIO

Punto di partenza di una simile impostazione cristologica sarà fondamentalmente l’inno della Lettera ai Filippesi (Fil 2,6-11). Affermazione di base dell’antichissimo inno è che ci sono più kenosi che soggetto che si annienta deve subire: già a partire dallo spogliarsi della sua forma divina.

Kenosi e immutabilità di Dio possono conciliarsi? Ritornando ancora una volta alla riflessione patristica, Baltha­sar con Ilario supera l’impasse affermando che tutto ciò avviene nella sovrana libertà di Dio – e solo del Dio neotestamentario – il quale ha il potere di svuotarsi: in Gesù Cristo si concede di rinunciare alla sua gloria ed è quindi divinamente libero da po­tersi legare all’obbedienza di servo. Potrebbe nascere in questa separazione delle due immagini di Dio: il Figlio che si annienta viene per un momento contrapposto a Dio Padre, dipinto in qualche maniera con i colori veterotestamentari (Fil 2,11); ma la riflessione teologica appiana subito la contraddizione: è il Padre stesso che non “pensa di dover trattenere” il Figlio, ma lo “dà”; e lo Spirito viene continuamente descritto come “dono” di ambedue. E’ un’azione trinitaria, una donazione tripersonale. Per questo ogni Persona (compresa la persona creata, in quanto immagine e somiglianza di Dio) è “ritorno-a-se-stessa (reflexio completa) dell’essere ogni volta già fuori di s‚”e “stare-fuori-di-sè‚ come un dentro che si dona e dispiega”[5].

Ora, lo scandalo della croce può essere accettato dal credente solo come azione del Dio trinitario. E’ Dio Padre che ha riconciliato a sè il mondo in Cristo ed in segno di quest’opera è lo Spirito Santo donato al mondo. Il presupposto per quest’unica possi­bile lettura della croce[6] è che sia stato sofferto tutto l’abisso del “no” umano contro l’amore di Dio.

Per questo infatti non c’è remissione del peccato senza espia­zione: se al posto di questo unico ed assolutamente irripetibile caricarsi del peccato del mondo da parte del Figlio di Dio vi fosse stata una pura amnistia o semplice giustificazione forense ciò avrebbe significato l’ignorare il male / peccato e riconoscergli il diritto all’esistenza.

Il nostro Autore, infine, rifiuta come insufficiente una interpretazione in senso antropologico della croce poiché non arriverà mai all’origine, “al sottofondo trinitario della croce” mentre solo il movimento contrario è in grado di interpre­tare in direzione della Trinità ogni dimensione cristologica e so­teriologica[7].

Sganciandoci dalla rigida idea di immutabilità divina si potrebbero raggiungere due ulteriori acquisizioni: che è proprio nella forma di servo, e nella croce che irrompe la gloria del Fi­glio, nella misura in cui qui il suo amore perviene al suo punto estremo (divino) e viene rivelato; e che il Dio trinitario, nell’incarnazione del Figlio, non solo ha aiutato il mondo a rial­zarsi, ma ha rivelato se stesso in quanto è più proprio[8].

Quest’ultime affermazioni sono di cardinale importanza per l’economia di tutta l’ulteriore riflessione di Von Balthasar: il naufragio del linguaggio e dell’intelligenza umana avviene proprio davanti a questo mistero: le relazioni eterne tra il Padre e il Figlio, nel tempo, durante il pellegrinaggio terreno di Cristo, hanno il loro punto focale nella relazione tra il Gesù terreno ed il Padre celeste, che lo Spirito santo è spirato tra di essi, e che, nella misura in cui procede dal Figlio, dev’essere toccato dal suo essere umano.

Diverse teologie si sono accostate al mistero della kenosi partendo dalla considerazione della coesistenza del finito e dell’infinito e facendo a meno delle categorie da noi elaborate della personalità divina. In una certa maniera esse trattano le categorie divine in una prospettiva veterotestamentaria e, soprattutto dopo Hegel, all’interno di essa collocano l’incarnazione come autolimitazione della divinità – sebbene avvenga in assoluta libertà – ed è opera d’amore.

In tutta risposta il nostro Autore afferma che il paradosso deve rimanere: quel paradosso secondo cui nell’umanità non viene decurtata l’idea che nella persona di Cristo si rende presente per noi tutta la potenza e la gloria di Dio.

V’è tutta una letteratura che potrebbe essere chiamata la storia della teologia della passione: questa si è barcamenata, lungo i secoli, nel mantenere – semmai ci sia riuscita – un equilibrio tra la devozione personale e concreta alla passione e la visione della croce come culmine di tutta l’opera redentrice e rivelatrice del Dio trinitario.

LA MORTE DI DIO COME LUOGO ORIGINARIO DELLA SALVEZZA, DELLA RIVELAZIONE E DELLA TEOLOGIA

1. Lo iato

Gesù, la Parola, la manifestazione e la mediazione di Dio muore e così viene a cessare la rivelazione che era nella sua vita.

Il vuoto e l’abbandono espressi nello stato di morte della Pa­rola incarnata appaiono più profondi di quelli causati da qual­siasi altra morte naturale di un uomo: quanto vi è proprio nella teologia del Venerdì santo non consiste nel compimento di un atto finale di autodonazione del Figlio incarnato al Padre: come la conclusione dell’esistenza terrena di qualsiasi altro uomo. Piut­tosto è qualcosa di assolutamente unico che si esprime nel realizzarsi di una completa assenza di Dio, cioè di tutto il peccato del mondo come dolore e sprofondamento nella “seconda morte”. E’ Dio che prende su di sè, nell’ultima obbedienza del Figlio al Padre, ciò che da sempre si opponeva a Dio ed è da lui eternamente ri­gettato, e così Dio si rivela in esso nascondendosi, nel “sub contrario” di Lutero. Ora è estremamente difficile conciliare da una parte “l’assoluto paradosso” che sta nello iato e dall’altra la continuità del risorto con colui che prima viveva ed era morto; tuttavia ciò è necessario e supera ancora una volta il paradosso.

Se si rimane soltanto al puro “sub contrario”, allora è inevi­tabile il cammino che da Lutero porta a Hegel: la cristologia pu­ramente dialettica si trasforma in una pura dialettica “filosofica” come formula del mondo. D’altra parte il vicolo cieco (aporia) che si profila nello stato della morte del Dio – Uomo, non può essere in nessun caso semplificato o ridotto ad “analogia”, intellettualmente comprensibile e della quale riusciamo ad essere padroni, tra il prima e il dopo, tra il Gesù mortale e il Cristo risorto, tra la terra e il cielo. “Lo scandalo della croce non può essere eliminato” (Gal 5,11), “la croce di Cristo non può essere svuotata” (1 Cor 1,17).

Partendo da questa affermazione paolina, cristianamente si può dare solo quella teologia che comprende ogni volta dinamicamente lo scandalo ineliminabile della “parola della croce” e la sua logica: cioè che dal paradosso della croce (nella debolezza di Dio si manifesta la sua forza e saggezza) passi alla rottura, giunga a ciò che sta al centro della croce, che è realmente forte e saggio: il Risorto.

La filosofia e la teologia hanno toccato il problema croce. Ma in che modo?

A partire dallo Gnosticismo si è ha fatto della croce solo un simbo­lo. E’ il principio di fondazione e coesione del cosmo (la kenosi e l’agnello sgozzato fin dalla fondazione del mondo (Cristo archetipo dell’uomo). Diventa qui un teologumeno senza pregiudizio della sua storicità che assorbe e sostituisce il filosofumeno. Così anche le interpretazioni della croce antropologiche, ontologiche o precristiane (Breton, Alain, Weil) o come pantragismo (R. Schnei­der).

Croce e risurrezione son visti anche in stretta connessione come culmine e chiave della legge universale del mondo (C.E. Raven e Teilhard De Chardin). Lutero e Hegel a loro volta negando radicalmente una simile connessione lasciando alla croce il suo carattere di paradosso ma in una formulazione puramente formale e statica.

La filosofia, dunque, può parlare della croce in maniera molteplice; se essa però non è logos della croce (1 Cor 1,18) nella fede di Gesù Cristo, potrà dire troppo o poco. Troppo in quanto essa si permette di dire parole o concetti là dove Dio tace, soffre o muore per rivelare ciò che nessuna filosofia può mai sapere se non nella fede: l’amore del Dio trinitario. La filosofia sa troppo poco perchè non misura l’abisso in cui sprofonda la Parola e chiude senza sospetto lo “iato” o incorona coscientemente l’“orribile” incorniciando la croce con le rose.

L’identità proclamata nell’annuncio crocifisso – risorto co­stituisce non solo un ponte sullo iato, ma già la chiusura dello iato stesso, cioè divenire salvifico, a partire da Dio, dell’uomo irreparabilmente spezzato nella morte del peccato.

La teologia, a questo punto, non può non far breccia e rompere la “logica” umana e basarsi unicamente sulla “logica” del Logos di Dio. Nella croce v’è l’ammutolimento di questo Logos. Ma ciò non è la rivelazione ultima e questa non – parola non è la parola estrema; Egli è identico al Kyrios esaltato, quindi l’opposizione tra una theologia crucis ed una theologia gloriae è superata (ma senza confusione) e l’una non può essere senza l’altra. Von Balthasar in questa visione unitaria riprende K. Barth e J. Blank.

L’Ecce Homo diventa una sintesi visiva: l’immagine definitiva e determinante di ciò che è il peccato del mondo per il cuore di Dio; e, nell’Ecce Homo, l’Ecce Deus: nell’immagine della piena kenosi, il “risplendere della gloria di Dio sul volto di Cristo” (2 Cor 4,6)[9].

IL CAMMINO VERSO LA CROCE

(Venerdì santo)

a. Esistenza nella Kenosi come obbedienza fino alla morte di croce

Il risultato del mistero della kenosi è l’intera esistenza di Gesù. La kenosi è innanzitutto a sua volta risultato dell’obbedienza / uniformità spontanea della volontà del Figlio col Padre non solo per il fatto di esser divenuto uomo ma anche nel voler divenire uomo, annichilendosi ed abbassandosi. Tale obbedienza costituisce la forma kenotica dell’amore eterno del Figlio nei confronti del Padre. E quindi, se nell’eternità il Figlio e il Padre si amano nello Spirito, nella sua esistenza terrena il Figlio obbedisce (= ama) al Padre nello Spirito.

b. Esistenza come coscienza dell’ora che viene

Gesù ha di fronte a sè quest’ora, la croce. Gesù vive fin dal principio in vista dell’“ora”, la croce, che egli non anticipa, e la cui conoscenza rimette al Padre: è la misura della sua esistenza.

c. Esistenza come anticipazione della passione?

Date queste premesse la riflessione porterebbe lasciar intendere che tutta l’esistenza di Gesù fin dall’inizio sia stata una croce interiore. Ciò ha avuto un’eco non indifferente in tutto un filone di pensiero cristiano[10].

Tuttavia questa teoria potrebbe na­scondere fra le righe il rischio di un docetismo gnostico alla ro­vescia: lo stato di abbassamento del Redentore, verrebbe a coincidere già con l’avvenimento storico della croce, pregiudicandone l’autentica temporalità dell’“ora” e quindi l’autenticità stessa dell’umanità e dell’incarnazione. Il filo conduttore dell’esistenza di Gesù non è la sofferenza in quanto tale, ma l’obbedienza con la quale accetta tutto dal Padre e l’“ora e la potenza delle tenebre” (Lc 22,53) vengono chiaramente delimitati da ciò che precede: non esauriscono l’attenzione né dominano l’ubbidiente.

d. Esistenza nel prendere-con-sè: la Chiesa dalla croce

La vita di Gesù è un essere-con anzi, meglio, un prendere-con-sè‚ gli altri. Se da un lato il suo camino verso la passione è irripetibile, dall’altro, ma solo dopo lo iato della morte, quando ha compiuto da solo tutta l’opera, gli altri, i discepoli sono messi in grado di seguirlo come testimoni attraverso la loro stessa vita e morte fino alla croce (Gv 21,19).

La Chiesa che descrive se stessa nella narrazione della pas­sione (fuga dei discepoli e tradimento di Pietro) riconosce appunto che qui non si dà “sequela di Cristo”, nonostante ci sia ancora questa Chiesa delle donne, questa Chiesa della carità – in contrapposizione alla Chiesa gerarchica assente – che accompagnerà Gesù fino alla croce ed alla sepoltura.

La croce è solidarietà ed inclusione: vuole abbracciare tutto. Il cuore aperto dalla lancia simbolizza la comunicazione dell’ultima sostanza di Cristo: il sangue e l’acqua, i sacramenti della Chiesa. E’ la Chiesa dalla croce, ed in quanto è generata dall’amore estremo di Dio per il mondo – è e deve essere essa stessa amore e, nella misura in cui essa è realmente (attraverso l’eucaristia) corpo di Cristo, è e deve essere concrocifissa con il suo capo.

L’Eucaristia, infine, nella sua relazione con la passione è donazione spontanea: Gesù fino alla fine può disporre in maniera decisiva di sè; diventa banchetto e sacrificio (pane e vino); comunione e partecipazione[11].

2. Giardino degli ulivi e la consegna

Solitudine

Gesù è solo di fronte a Dio che si sta per allontanare; solo di fronte ai discepoli.

 Ingresso nel peccato

L’ora e bere il calice rappresentano l’ingresso nel peccato. A ciò in passato si erano opposti due teologumeni: quello della visione (beata?) del Padre nell’anima di Cristo anche durante la sofferenza e quello della dottrina della predestinazione che escludeva la sofferenza espiatrice, ma la stessa teologia del tempo ne aveva dimostrato l’infondatezza. Questo è possibile perchè tutta la coscienza umana del Cristo è determinata dal Logos e dal suo eterno amore per il Padre; dalla disponibilità assoluta (espressione della kenosi – obbedienza) implicita in questa determinazione, della natura umana ad essere lo spazio del con – patire; dalla comunicazione e solidarietà reale della natura umana con la concreta umanità universale ed il suo destino escatologico.

La lotta orante

La lotta orante nel giardino degli ulivi ha come unico oggetto il sì alla volontà del Padre. Gesù non pensa ad un’esaltazione o glorificazione: non ha davanti nessun’altra prospettiva se non fare la volontà del Padre per se stessa. Per questo è una situazione senza paragoni ed analogie: l’obbedienza di Gesù è la forma e la dinamica della sua esistenza.

Consegna

La consegna di Gesù alla passione rimane un mistero: Dio resta colui che agisce con irrevocabilità ed inesorabilità di un atto di giudizio, anche e non si parla più della sua “ira”, ma del “proposito prestabilito” ed infine del suo amore che non ha risparmiato il suo unico figlio.

Accanto al Padre che consegna – per i peccatori – ed al Figlio che si autoconsegna, appare un terzo che consegna: il traditore, Giuda. Paradossale gioco combinato. L’amore di Dio che consegna e il tradimento umano.

Processo, condanna e crocifissione

Cristiani, giudei e pagani come coloro che condannano: solo secondariamente si può parlare di una gradazione di re­sponsabilità perchè‚ “Dio ha racchiuso tutti nella disobbedienza per usare a tutti misericordia” (Rm 11,32) – nonostante che nè Giuda, “uno dei dodici”, né i giudei, nè Pilato, nè Erode vogliano essere responsabili e proprio così vengono tutti convinti di colpa.

L’atteggiamento di Gesù

Alla fine della lotta orante la piena disponibilità è di nuovo conquistata: adesso Gesù è libero di lasciarsi legare, esteriormente ed interiormente.

Crocifissione

La croce come giudizio

La morte di croce, come atto ultimo, conclusivo ed esplicativo dell’esistenza terrena di Gesù.

La croce è krisis, giudizio non del mondo, del suo stato (forense e giudiziale), ma sul mondo: giudizio di condanna, giudizio che pone fine ed annulla, il peccato del mondo, il “vecchio eone” in maniera oggettiva e reale.

Le parole della croce

Il grido di abbandono è la parola fondamentale e riassuntiva delle altre restanti parole della croce riportateci dai vangeli.

Questo grido esprime nella sua acuminata realtà, il climax raggiunto di tutte la sofferenza di Gesù in croce.

Approccio esperienziale allo iato

La solitudine e l’assoluta unicità di questa sofferenza sembra impedire qualsiasi ingresso nel suo intimo che non si tratti solo di un’“assistenza” silenziosa “da lontano” (Mc 15,40)?

Possono darsi degli approcci che siano autentici e nello stesso tempo conservino quella distanza che lasci intatta l’unicità della passione redentrice.

Nell’Antico Testamento troviamo indicazioni ed immagini che hanno avuto un influsso per la narrazione della passione (per esempio, il giusto consegnato, la sofferenza dell’innocente, il martirio per la fede anche nel suo aspetto espiatorio e meritorio) ma esse diventano tali solo dopo che la croce avrà fatto breccia attraverso “l’ira di Dio” fino all’abisso più profondo. E’ proprio questo che Von Balthasar, guidandoci ad un approccio appropriato attraverso l’Antico Testamento, vuole che si tenga presente: l’esperienza delle tenebre, della desolazione e della maledizione; lo Sheol come “pozzo dell’abisso” (Sl 55,24;140,11) e “luogo di perdizione” fino a diventare la “Gehenna”, luogo di pena escatolo­gico; l’esperienza dell’abbandono del popolo da parte di Dio (Cf Ez 10,18 s.;11,22 s.) e del singolo che sprofonda solitario (Giobbe) o in rappresentanza del popolo (Geremia, il “Servo di Jahvè”).

Anche i cristiani hanno diverse occasioni per fare esperienza della croce attraverso le loro sofferenze e persecuzioni ma senza dubbio si dà gradazione tra l’universale essere crocifissi morire e risorgere con Cristo nel battesimo e nella vita cristiana (Rm 6,3-6; Col 3,3) ed il particolare essere con – crocifisso di Paolo (Gal 2,19;6,14), il suo portare le stimmate di Gesù (Gal 6,17; cf 2 Cor 4,10). Nel Nuovo Testamento riflesso dell’ “abbandono di Dio” veterotestamen­tario e la concezione dell’“inferno” come stato interiore da Agostino a Nicolò Cusano. E’ la “lotta contro i demoni” dei Padri del deserto, il “distacco dello sposo” del Cantico dei cantici – tema rivisitato più volte in seguito dai grandi Mistici -, la “notte oscura” di Giovanni della Croce.

Tuttavia restano pur sempre approcci e accenni lontani dell’inaccessibile mistero della croce, in quanto come è unico il Figlio di Dio altrettanto è incomparabile il suo abbandono da parte del Padre[12].

E’ un abbandono che è prototipo – come abbiamo visto – dell’esperienza mistica della “notte oscura”[13] – approccio espe­rienziale di chi ha esperito la vicinanza con Dio e che quindi può comprendere che cosa significhi essere lontano da lui. Ma tale approccio esperienziale mistico alla croce come abbandono è solo introduttivo. Il vero significato della kenosi – abbandono, come momento interno della redenzione, sta nel fatto che esso, pur provenendo dalla solidarizzazione di Cristo con l’umanità pec­catrice, diviene però dramma interiore di Dio stesso e, come tale, risolto a beneficio dell’uomo. Solo Dio, infatti “si può donare fino all’abbandono divino senza cessare di essere Dio”[14]. L’abbandono anzitutto è un momento essenziale, non psicologico o letterario[15], dell’atto stesso di redenzione in quanto salvezza dell’uomo peccatore. C’è da notare infine che il discorso della kenosi non si può limitare a questo lato teologico – mistico della redenzione: c’è anche l’aspetto di tale dramma, più storico e consono ad una prospettiva biblica, ed è quello della soffe­renza del giusto abbandonato alla persecuzione dei suoi nemici da cui non è miracolosamente liberato: uscirà dalla lotta vincitore solo col suo abbandono in Dio (Lc 23,46; Sal 31,6)[16].

 

IL CAMMINO VERSO I MORTI

(Sabato Santo)

1. Riflessioni metodologiche preliminari

Gesù è realmente morto. Così come nella vita egli fu solidale con i viventi, altrettanto lo fu nel sepolcro con i morti. Il nostro Autore mette tra parentesi la parola «discendere» e preferisce «essere con i morti».

Questo «andare presso le anime nel carcere» è inteso come un «essere presso», questo «scendere nel regno sotterraneo» non è una mitologia.

2. Il Nuovo Testamento

Dio non ha lasciato Gesù nell’Ade. La dottrina del viaggio di Gesù all’Ade vuole esprimere che il giusto è morto per gli ingiusti, la sua morte espiatrice ha ottenuto la salvezza anche per coloro che erano perduti senza speranza.

3. Solidarietà nella morte

Un primo punto di vista è la solidarietà di Gesù, morto in croce, con tutti li altri uomini morti. Le cure prestate al cadavere di Gesù sono una testimonianza di questa solidarietà. Il cadavere deve essere sotto terra e si afferma così 1’«essere» di Gesù presso i morti.

«Sheol»

L’essere assieme ai morti non redenti implica la solidarietà nello Sheol vetero-testamentario. Questo Sheol va inteso nella sua accezione classica: è l’Ade, il Tartaro, la Fossa dove non c’è forza, non c’è attività ma tenebra eterna, polvere, silenzio. Anche Cristo, dopo la sua morte, è disceso in questo luogo.

Solidarietà

Solidarietà ultima è lo scopo ed il punto di arrivo del descensus descritto dalla Scrittura. E poiché l’uomo è un’unità psico-fisica, Cristo dovette fermarsi tra i morti nell’Ade per tutto il tempo che il suo corpo restò nel sepolcro. Perché tutti i peccatori potessero essere salvati, Cristo, per redimerli, non solo volle morire ma scendere con l’anima ad infernum. Tra i morti non esiste alcuna comunicazione vitale. La solidarietà con i morti significa quindi trovarsi nella stessa solitudine.

L’uomo in possesso della fede, della speranza e della carità è riconciliato quindi con Dio e può ottenere riconciliazione solo attraverso Cristo.

Cristo è dunque disceso nell’essere nella morte «per portare i nostri peccati, così come era conveniente che egli scendesse all’Ade per liberarci dalla discesa all’Ade […], conformemente alle parole di Isaia: “Veramente ha preso su di sé la nostra malattia e ha portato i nostri dolori”» (Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, III, q. 52, a. I c).

Nell’Ade, Cristo appare ormai ai «senza forza»; egli non può condurre una lotta attiva contro le forze dell’inferno e tanto meno può soggettivamente trionfare, in quanto ciò presupporrebbe, a sua volta, vita e forza.

Evento trinitario

L’essere del redentore con i morti è l’ultima conseguenza della missione redentiva ricevuta dal Padre. Si tratta dell’obbedienza del Cristo morto e l’unica “obbedienza di cadavere”. Il figlio può essere effettivamente nell’inferno, solo come morto, nel Sabato Santo. Il Signore ha percorso questo inferno, perché egli non è impedito da alcuna catena di peccato ma è libero tra i morti. «Oggi egli è entrato come re nel carcere, oggi egli ha sfondato le porte di bronzo ed i ceppi di ferro; egli che era stato inghiottito come un uomo comune, in Dio ha devastato l’inferno»[17].

4. La salvezza nell’abisso

In quanto evento trinitario, il cammino verso i morti è necessariamente un evento salvifico. Egli si è mostrato ai dannati per dimostrare il suo potere anche sull’inferno. Con la resurrezione, Cristo lascia l’Ade alle sue spalle: egli prende però con sé «l’inferno» – l’impossibilità cioè degli uomini di pervenire a Dio – in forza della propria esperienza trinitaria: come espressione del suo potere di disporre, in quanto giudice, della salvezza o dannazione eterna dell’uomo.

Il «purgatorio»

Dal punto di vista teologico, il purgatorio non può avere origine che il Venerdì Santo. Il fuoco escatologico vaglierà le opere degli uomini. Non si parla di purificazione ma di un vaglio: il fuoco è strumento di un giudizio escatologico che non viene pronunciato dall’ira fiammeggiante di Dio ma da Gesù stesso solidale con noi.

IL CAMMINO VERSO IL PADRE

(Pasqua)

Che un morto riprenda a vivere, nel contesto biblico non è una novità assoluta ma non è questo che si vuole intendere con la risurrezione di Gesù, bensì il suo passaggio ad una forma di esistenza che ha lasciato dietro di sé, una volta per sempre, la morte, e supera quindi, una volta per tutte, i confini di questo eone, per arrivare al Padre. Gesù è stato preservato dalla corruzione, vive per Iddio, vive «nei secoli dei secoli» ed ha le chiavi della morte e dell’Ade.

La risurrezione è «un evento reale intramondano […] perché essa è accaduta […] nel tempo come storia particolare della storia umana universale» (K. Barth). L’inimmaginabile che un morto risorga ad una vita immortale, definitiva, viene quindi a dimostrarsi come superamento di qualcosa di conosciuto, anzi di atteso già in qualche maniera.

Nello stesso momento in cui Gesù viene «giustificato» da Dio, lo sono anche i suoi seguaci: il primo motivo della giustificazione, e quindi della remissione dei peccati, è collegato alla risurrezione e non alla croce. Il vero soggetto dell’azione è Dio stesso, che consegna per amore il Figlio suo, e questi assume attivamente, a sua volta, nell’amore i nostri peccati e la nostra maledizione.

Tutta la vita, l’opera e il parlare di Gesù nei suoi giorni terreni devono essere ripensati lentamente a partire dalla risurrezione.

La forma trinitaria dell’affermazione

Se si riconosce la dimensione trinitaria dell’evento, in maniera adeguata, si può parlare della «pro nobis» e del «pro mundo».

Al Padre viene quindi sempre ascritta l’iniziativa della risurrezione del Figlio. E’ il Padre che agisce portando a compimento la sua azione creativa mediante la risurrezione dei morti. In questa operazione di potenza e di glorificazione del suo Spirito, Dio si manifesta come il Dio che risuscita i morti in maniera talmente forte e definitiva «che ha fatto risorgere Gesù dai morti» (Rm 8,11; 1 Cor 4,14; Gal 1,1; Ef 1,20; Col 2,12). Ogni azione del Dio vivente è stata da sempre ordinata alla risurrezione del Figlio. Nel momento in cui Dio Padre, nella risurrezione del Figlio, porta a compimento il suo progetto, manifesta al mondo il suo Figlio risorto e glorificato.

La libertà del Padre di fare risorgere il Figlio, in un atto sovrano di dominio, è testimoniata dalla libertà del Figlio di manifestarsi da se stesso nella sua più alta sovranità.

La risurrezione del Figlio è rivelazione dello Spirito. La rivelazione decisiva del mistero trinitario non avviene quindi prima del mysterium paschale; essa viene preparata nell’opposizione della volontà nel giardino degli ulivi e nell’abbandono da parte di Dio sulla croce ma si manifesta pienamente con la risurrezione.

L’autotestimonianza del Risorto

Molte narrazioni confessano l’incontro con uno che era morto ed era stato sepolto. Egli diede ai discepoli «molte dimostrazioni che egli viveva» (At 1,3). L’incontro con i discepoli ha iniziativa per mezzo suo. I discepoli, nell’incontro con il Risorto sono consapevoli non solo di essere da lui conosciuti ma penetrati fino in fondo. Gesù, il Risorto stesso, spiega le Scritture riferendole a sè. Gesù appare come colui che mette sulla strada verso i fratelli coloro che sono arricchiti della sua visione e soprattutto del suo Spirito.

La situazione esegetica

Quando Gesù fu preso prigioniero e giustiziato, i discepoli non nutrivano certezza alcuna dell’attesa di una risurrezione. Essi fuggirono e dettero per finito il “fatto Gesù”. Dovette quindi intervenire qualcosa che, in poco tempo, non solo provocò il cambiamento radicale del loro stato d’animo ma li portò ad un’attività del tutto nuova ed alla fondazione della Chiesa. La risurrezione non poteva essere annunciata da testimoni che non avessero saputo raccontare nulla sugli incontri con il Risorto. Queste narrazioni, nella misura in cui morte e risurrezione appaiono sempre strettamente congiunte nel kerygma, dovevano in qualche maniera corrispondere al realismo, familiare agli ascoltatori, degli avvenimenti della Passione …«come vi è noto» (At 2,22).

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Note

[1] H. U. VON BALTHASAR, Mysterium Paschale, in AA. VV. Mysterium Salutis, VI: L’evento Cristo, J. FEINER – M. LÖHRER edd., Brescia, Ed. Queriniana, 1973 2 ed., p. 171 – 412.

[2] Elaborando e privilegiando questa cristologia dall’alto, di cui recepisce l’influsso diretto oltre che da K. Barth, dai Padri Greci, soprattutto alessandrini, Von Balthasar non esclude nè si oppone ad una cristologia dal basso (su una base di “apertura trascendentale” (K. Rahner), oppure di tipo antropologico (Schoonenberg, Schillebeeckx, Küng, Duquoc)) che, anzi, fa sua ed armonizza con la prima in una visione alquanto originale, partendo proprio dal loghion di Gv 3,13.

[3] Cf G. MARCHESI, La cristologia di Hans Urs Von Balthasar. La figura di Gesù Cristo espressione visibile di Dio, Roma 1977, p. 28 – 33 (Analecta Gregoriana, 207).

[4] M. BORDONI, Gesù di Nazaret Signore e Cristo, Saggio di Cristologia sistematica III, Roma 1986, p. 790.

[5] Cf BALTHASAR, p. 189; BORDONI, p. 518. La teologia russa recente – anche se non senza tentazioni gnostiche ed hegeliane – si avvicina a queste posizioni affermando che l’ultimo presupposto della kenosi è l’“altruismo”delle per­sone nella vita intratrinitaria dell’amore; quindi sarà una kenosi fondamentale che è data già nella creazione in quanto tale, perchè Dio si impegna per la sua riuscita – volendo la libertà dell’uomo – e tendendo presente, con lo stesso peccato, la croce. Cf BALTHASAR, p. 195 – 197.

[6] Von Balthasar lascia cadere qui tutte le altre teorie di una possibile altra redenzione. Dio nella sua libertà sovrana ha voluto così ed il divenire solidale con i peccatori significa qualcosa di più che morire solo esteriormente in sostituzione di essi, ecc.. Cf p. 285.

[7] Cf BALTHASAR, p. 284 – 288

[8] Cf BALTHASAR, p. 184 – 191.

[9] Qui la citazione dell’A. è un po’ adattata! Cf MARCHESI, p.356. Cf BALTHASAR, p. 232 – 235; 264 – 265.

[10] Cf BALTHASAR, p. 241.

[11] Cf BALTHASAR, p. 242 – 246; 262 – 264; 277 – 282.

[12] BALTHASAR, p. 228 – 232.

[13] La quale però non accede mai ad una idea calvinista di “giustizia vendicativa” verso Cristo come rappresentante dei peccatori.

[14] BALTHASAR, p. 234.

[15] Per Balthasar non è l’inizio della recita del salmo 22 che finisce con la glorificazione del sofferente e dovrebbe essere interpretato dal contesto del salmo stesso. Cf Balthasar, p. 271.

[16] Cf M. BORDONI, p. 527; C. DUQUOC, Croce del Cristo e sofferenza umana, in “Concilium”, Roma (9) 1976, p. 122 – 133.

[17] PROCLO DA COSTANTINOPOLI, Sermo 6, n. 1 – PG 65,721