Teologia della Devozione del Sacro Cuore di Gesù
Orientamenti odierni
di Francesco Pignatelli
CAPITOLO III
CONTRIBUTI ATTUALI DELLA TEOLOGIA DELLA DEVOZIONE DEL SACRO CUORE
3.1 Simbolo evento di rivelazione del Mistero
«La teologia dell’oggetto e del senso della devozione al Sacro Cuore dovrebbe essere svolta sullo sfondo di una teologia del simbolo. Essa però non è ancora stata scritta, neppure con le presenti riflessioni. Queste avevano soltanto uno scopo (e forse ad onta di ogni imperfezione e brevità è loro riuscito di raggiungerlo), di dimostrare cioè che bisognerebbe e si potrebbe anche scrivere una teologia delle realtà simbolica cristiana perché la realtà in genere e soprattutto la realtà cristiana è essenzialmente ed originariamente una realtà della cui costituzione fa necessariamente parte il simbolo…» [108] .
Con queste parole Karl Rahner conclude il saggio: Zur theologie des Symbols [109] , nel quale inquadra le idee portanti di tutta la sua riflessione sulla devozione al Sacro Cuore nello sfondo di una generale teologia del simbolo.
Nell’enciclica HA la simbologia del cuore, sebbene non disattesa, non rientra come considerazione preminente nella determinazione dell’oggetto del culto. A causa di questa lacuna, in seguito, alcuni autori hanno voluto ulteriormente evidenziare che una delle cause maggiori della crisi in cui sembrava avviarsi, nel periodo post – bellico, la devozione, era dovuta al fatto che la teologia del Sacro Cuore continuava ad essere esposta secondo la forma elementare del simbolismo classico, mentre il mondo dei teologi, pochi eccettuati, ignorava i sostanziali progressi compiuti sull’argomento.
I fautori di questa impostazione elementare – si è visto – procedono secondo criteri aprioristici, legati cioè alla parola materiale «cuore» e volti a precisarne astrattamente il senso: «cuore fisico», oppure semplicemente «metafora»? «cuore fisico» inteso come «organo» dei sentimenti, «sede» dell’amore, oppure quale «simbolo» di essi? La soluzione adottata dal «simbolismo classico» è quest’ultima.
Circa l’uso della parola «simbolo», Karl Rahner, nel suo saggio, fa giustamente osservare che il senso generale del termine non viene spiegato: dal semplice termine non si può dedurre una precisa definizione categoriale, né una spiegazione metafisica [110] . Inoltre, fra i teologi non esiste una opinione concorde sul modo in cui il Cuore è simbolo dell’amore di Cristo, né riguardo al modo in cui queste due entità stanno in rapporto tra loro, quando si tratti di stabilire l’oggetto della devozione [111] . In più Rahner intende dare una risposta anche a quei teologi i quali sembrano rifiutare la concezione «classica», secondo la quale il cuore fisico di Cristo è venerato nella misura in cui è «simbolo» dell’amore di Cristo. Questi determinano l’oggetto della devozione partendo da un più ampio, ma vero e proprio significato di cuore il quale designa l’intero soggetto della vita interiore: il «cor ethicum» [112] .
Il contrasto fra queste due teorie è più apparente che reale: il simbolo e la cosa simbolizzata non devono essere coordinati uno all’altro per via puramente esteriore. Inteso rettamente…
«…simbolo, in una vera sua teologia, partendo dalle posizioni base del cristianesimo, non significa appunto qualcosa che, staccato dalla cosa simbolizzata (oppure in quanto diviso, unito realmente o razionalmente (ad essa) in guisa puramente additiva), la notifichi e sia pertanto vuoto di essa, ma significa la realtà che, in quanto elemento intrinseco, posto dalla cosa simbolizzata, manifesta questa stessa, la notifica, e, in quanto esistenza concreta della cosa simbolizzata stessa, ne è pieno» [113] .
Partendo da questo concetto, «cuore» significa intimo centro personale che si compie nella corporeità, e si può tuttavia designare il cuore fisico (essendo un fattore interno a quest’insieme) come simbolo del tutto e pertanto mantenere la terminologia dell’enciclica HA [114] .
Queste conclusioni, oltre ad avere il vantaggio di sottolineare l’aspetto esistenziale e personale del culto, consentono di eludere la domanda capziosa sul perché non si possa anche venerare l’amore di Cristo, al quale si ha tuttavia un accesso diretto, senza nominare esplicitamente il «cuore» [115] :
«…la realtà della divina autocomunicazione si crea la sua divina immediatezza proprio attualizzandosi nel simbolo, il quale non comunica ponendosi come un diaframma, ma unisce direttamente, perché il vero e proprio simbolo è unito direttamente alla cosa simbolizzata per il fatto che questa pone quello come proprio auto – compimento» [116] .
3.1.1 Segno e/o simbolo
L’istanza per la teologia di trovare nel Cuore di Cristo non tanto un «oggetto» su cui riflettere, quanto la prospettiva da cui rileggere tutto il patrimonio di fede cristiano e, in ultima analisi, l’economia di salvezza, rimane un asserto indeterminato e, forse, addirittura equivoco, se prima non è specificata la nozione di simbolo e la funzione della simbolicità, quale tipo di conoscenza è in grado di fondare. Riecheggiando Rahner [117] , diremo che passaggio obbligato per la teologia della devozione del Sacro Cuore è il considerare il mistero del Cuore di Cristo, unitario e simultaneamente articolato, sotto l’ aspetto simbolico. Ciò significa rispettare la realtà e la dinamica stessa della devozione.
A volte, sono ricorrenti affermazioni secondo cui il simbolo del Cuore è insufficiente ed inadeguato ad esprimere e giustificare tutta l’originalità e la globalità del contenuto della spiritualità del Cuore di Gesù, in quanto non strettamente legato alla rivelazione biblica e di origine datata. Esso è incapace di ridarle credibilità per i nostri tempi, per cui si potrebbe, dunque, anche prescindere dal segno senza che ne risenta la sostanza della spiritualità[118] . Soggiacente alle obiezioni v’è una concezione errata e ristretta di simbolo, la quale, in questo caso, ha generato la convinzione che sia possibile dividere significante e significato e che quest’ultimo sia prevalente. Tale tentativo non è che un impoverimento sia del simbolo, trattato alla stregua di un concetto, mero strumento conoscitivo e quindi contingente, sia del contenuto stesso, ridotto, ammesso che ne sia possibile, alla univocità di scarne idee.
Non è possibile sviluppare per esteso l’argomento, tuttavia è necessario qui, almeno per sommi capi, evidenziarne i punti salienti e le conclusioni [119] .
Comunemente quando parliamo del simbolo intendiamo un procedimento conoscitivo semplice ed immediato, che si avvale di un segno sensibile o di un’immagine che fa da supporto ad un concetto da trasmettere. Insieme a Paul Ricoeur – chiamiamo simbolo ogni struttura di significato dove un senso diretto, primario, letterale, designa per sovrabbondanza un altro senso indiretto, secondario, figurato, che non può essere appreso se non attraverso il primo [120] .
Inteso rettamente, quindi, il simbolo, è una realtà originaria che fonda una logica altrettanto originaria, il discorso simbolico. Questo porta ad un tipo di conoscenza diverso da quella concettuale, razionale: è un discorso di totalità che esprime la parola e nello stesso tempo si pone al di là di essa [121] .
Il semantismo del simbolo è diverso dal quello del segno: si costruisce sullo scambio effettivo tra un oggetto capace di alludere a un “di più” ed un soggetto in grado di captarlo. Il segno trascura necessariamente questo “di più” in quanto la sua funzione di indicare qualcosa lo inclina verso l’univocità.
La vocazione del sym-bolon è quella di mettere insieme, di comunicare più che di spiegare, ed il significare stesso dell’uomo, il suo esprimersi, più che comunicare solo concetti è un autentico comunicarsi. Pertanto, l’intenzionalità dell’attività comunicativa dell’uomo, la quale porta con sé il mistero o la complessità del soggetto, impedisce che questa venga ridotta a somma di unità elementari o che la si esaurisca entro concetti chiari e distinti.
Un simbolo, quindi, non significa: evoca e focalizza, riunisce e concentra, in modo analogicamente polivalente, una molteplicità di sensi che non si riducono ad un unico significato e neppure ad alcuni significati soltanto.
Ogni atto umano che comunichi qualcosa a qualcuno è costituito da un significante (immagine materiale), da un significato (contenuto mentale stabile) e da un referente (realtà allusa su cui si vuol comunicare). Ciò vale per il segno e per il simbolo: in entrambi c’è una doppia intenzionalità ed un doppio significato: quella propria e naturale e quella che hanno in quanto formalmente segno e simbolo. Il discorso simbolico si fonda sul referente, poiché – si è detto – il comunicare qualcosa a qualcuno è simultaneamente un comunicarsi, un relazionarsi, una comunicazione con – vissuta, cioè il simbolico fa perno sulla qualità della presenza della cosa al soggetto, ne comunica il senso. Per questo il simbolo oltre a non appartenere alla sfera dell’irrealtà, non è riducibile ad un semplice strumento di informazione: l’attività simbolica, informando, comunica la realtà sulla quale informa.
3.1.2 Simbolo religioso
Bisogna notare che la nostra comunicazione verbale consiste nell’uso di simboli tanto quanto, se non di più, nell’uso dei segni [122] . L’uomo, quindi, vive, conosce e si manifesta in un universo simbolico che egli stesso costruisce. In questo senso, anche ed a maggior ragione, il suo approccio al Sacro, non può che essere simbolico [123] . In campo religioso, il termine simbolo, viene riferito tanto alle forme concrete con cui una determinata religione si esplicita, quanto al modo di conoscere, di intuire e di rappresentare, proprio dell’esperienza religiosa. In questi simboli, anche se spesso si può riconoscere in essi un substrato antropologico universale, il significato, il qualche cos’altro a cui rimandano può dipendere, secondo l’interpretazione generale del fatto religioso, da una rivelazione, dall’influsso sociale, dall’emergenza di un archetipo, ecc… [124] . L’attività simbolica dell’uomo è un tipo di approccio al mistero: il simbolo non è spiegazione razionale del mistero quanto una sua rappresentazione intuitiva, una sua traduzione, una rivelazione dell’esperienza del mistero attraverso «la deformazione» di immagini, segni e simboli [125] . Tenendo presente quest’ordine di considerazioni, con le dovute ed essenziali distinzioni, rileviamo che anche il linguaggio religioso è fondamentalmente simbolico, cioè allusivo, e non semplicemente segnico. Tuttavia, l’originalità di questo linguaggio sta proprio nelle sua qualifica di religioso ossia nella sua qualità – relazione che gli deriva dal rapporto con il divino, fondandosi, però, su quell’analogia che gli consente un’apertura all’essere ed alla trascendenza.
Infine, basta solo accennare che anche il linguaggio biblico è fondamentalmente simbolico. La parola di Dio è simbolica in tutta la misura in cui essa si proietta verso una realtà la quale – benché situata al di là del sensibile – ciò nonostante si riflette in essa [126] . Lo stesso significato degli avvenimenti storici che racconta, è espresso mediante simboli di uso comune che meglio descrivono la realtà del mistero di salvezza. La «pedagogia dei segni» è, dunque, il modo assunto da Dio per parlare ed operare in mezzo al suo popolo: da ciò deriva che il simbolo biblico è essenziale all’intelligenza ed alla comunicazione della dottrina o del mistero in esso contenuto poiché in un centro senso ne fa parte essenzialmente e psicologicamente.
3.1.3 Quale simbolo del Cuore di Cristo?
La premessa sul simbolo appena delineata fornisce il metodo e le coordinate su cui sviluppare le nostra ulteriore riflessione sulla devozione del Cuore di Gesù.
L’interpretazione simbolica propria della devozione del Cuore di Gesù è contemplazione sempre alla ricerca del significato profondo del mistero. Quando l’HA, parla del Cuore di Cristo come simbolo dell’immenso amore di Dio per noi, passando all’ambito semiotico dell’immagine al semantismo simbolico in essa globalmente incluso sembra avvertire che la realtà da tener presente è molto più ampia della semplice figurazione dell’organo anatomico, per quanto importante e significativa: è necessario includervi non solo la vita affettiva, ma anche la stessa persona di Cristo e, dunque, per coglierne il contenuto effettivo, vedere che cosa il Cuore riveli della Persona e della sua storia [127] . Il che significa riconoscere alla figura del Cuore di Cristo un autentico valore rivelativo. Tuttavia, quale figura, o segno del cuore può rivendicare la funzione di simbolo? quale simbolizzazione del Cuore può assolvere la funzione di essere particolare «lettura» di un evento?
In tale prospettiva l’ interpretazione del significato del Cuore di Cristo deve mettere in risalto il referente del simbolo, cioè il contesto in cui si inserisce la manifestazione stessa del Cuore di Cristo.
3.1.4 Il simbolismo naturale ed il senso metaforico
Se non si è mai accettato di voler fondare il valore simbolico del cuore fisico di Cristo su concezioni scientifico – filosofiche, e lo stesso simbolismo naturale del cuore è stato sempre ritenuto insufficiente, entrambi è necessario siano tenuti in considerazione insieme ai vari significati culturali, che lungo la storia ha assunto la parola cuore, oppure quelli che le diverse culture le attribuiscono. Per esempio infatti, dire tout – court che la parolacuore evochi il sentimento dell’amore (e bisogna stabilire anche di quale accezione di amore si tratti) è perlomeno improprio: insistere su questo aspetto vuol dire imbattersi nella difficoltà data dal fatto che, in alcune culture, il cuore non è considerato come simbolo dell’amore se non in un contesto puramente sentimentale [128] . Inoltre il simbolo del cuore (e, di conseguenza, del Cuore di Cristo), nel tempo e dalle varie culture, è considerato sempre inserito in una più generale antropologia ed in particolari filosofie e teologie della corporeità di cui non si può non tener conto [129] . Il cuore ha un suo simbolismo naturale e culturale insieme. La psicologia, per la risonanza che in esso vi hanno le emozioni, considera le palpitazioni cardiache come il sintomo fisiologico di uno stato emozionale [130] . Questa comune esperienza ha portato, grazie alla trasformazione che permette la metafora (cioè il passaggio da un senso ad un altro), al senso traslato, figurato del termine: cuore vuol dire volontà, coraggio e soprattutto amore, con riferimento più all’ aspetto attivo della vita affettiva, che a quello recettivo, passivo. Tutto ciò indica un aspetto ben determinato dell’esperienza umana: il legame che si percepisce tra emozione affettiva e reazione corporale. Le viscere rispondono ad uno stato d’animo e viceversa. Così la parola cuore – soprattutto in una cultura prescientifica – non significa in primis nè l’organo anatomico, né l’affetto interiorizzato dell’amore, ma precisamente la relazione che si stabilisce fra i due, cioè il fatto sperimentale che un sentimento ha una ripercussione interiore sul corpo e così inversamente. A partire dal Rinascimento lo sviluppo delle scienze anatomiche e fisiologiche provocò lentamente un cambiamento nel funzionamento della metafora ed il primo significato della parola cuore diventò quello anatomico mentre il secondo continuava ad evocare l’idea di un centro che dall’interno mette in relazione, unendoli, i due aspetti, corporale e morale (o affettivo) dell’esperienza umana. Quanto detto è più che confermato dalla ricerca biblica ed antico – orientale in genere, la quale mostra quanto sia diverso in quell’area culturale il senso del termine «cuore» rispetto al significato divenuto corrente nella cultura occidentale moderna. Qui la parola non indica una parte dell’uomo, ma la persona tutta intera, colta nella sua unità (corpo e spirito) e nel suo centro decisionale. É il centro dell’uomo, la relazione concreta, a sua volta morale e fisica, che unisce a Dio e ai fratelli; la capacità di amare, sorgente della comunione con Dio, con gli altri e se stesso [131] .
Un tale uso non privilegia nessuna figura determinata. L’ascolto o la lettura consente di coglierne il senso senza che sia necessario proiettare mentalmente un’immagine precisa. Il cuore è l’interiore nascosto che si manifesta, si intravede con la figurazione dell’esteriore aperto, il costato. Figure privilegiate per indicare il cuore infatti sono sia la parte sulla quale riposa il discepolo amato, il seno, sia costato aperto. Inoltre è da tenere presente la parziale equivalenza e sinonimia tra i termini kardìa (cuore), koilìa, (ventre, seno) e splànkna (interno dell’uomo, viscere) riscontrabile nella Scrittura [132] .
Tale concezione antropologica sarà fatta propria anche dai Padri e perdurerà fino all’inizio dell’epoca moderna: per esempio, nella stessa esperienza di santa Margherita Maria Alacoque [133] .
Oggi, nella nostra cultura «cuore» continua ad indicare affettività, amore umano piuttosto sentimentale e sensuale, tenerezza [134] . Ciò dice ancora poco, anzi. É importante invece ritIene che se ogni segno è intelligibile solo unito ad altri segni ed inserito in un contesto a maggior ragione questo vale particolarmente per i segni cristiani. Ciascuno, preso a se stante, non è comprensibile se non in relazione all’insieme di un discorso teologico, ma diviene tanto più comprensibile quanto più è collegato ad una molteplicità di segni biblici o liturgici [135] . Questa dinamica è stata seguita, ad esempio da una mistica quale Margherita – Maria Alacoque, per tradurre in un linguaggio simbolico comprensibile ai suoi contemporanei la portata teologica del suo messaggio [136] .
3.2.1 «Dio è amore»
Il Cuore di Cristo è simbolo del amore misericordioso con cui Dio ha amato l’uomo. Questa è la valenza che ha maggiormente sollecitato la ricerca dei teologi. Anzi, come si è potuto constatare, su di essa si sono cristallizzate le varie opinioni riguardanti il senso della devozione al Sacro Cuore.
Volendone trovare il fondamento biblico, senza dubbio non cercheremo nella Scrittura una devozione o un tema sul cuore di Dio, appunto perché, nell’antropologia semitica, il cuore non ha lo stesso significato di amore quale è presente nelle nostre concezioni occidentali moderne.
In concreto finiremmo con lo studiare i grandi passi della rivelazione dell’amore di Dio. Tale è la strada percorsa dall’ HA [137] : l’insieme del mistero dell’alleanza e della salvezza si rivela come mistero di amore divino, il quale richiede una risposta di amore. Quindi la storia dell’amore divino trova il suo apice nella manifestazione del Cuore di Cristo. E precisamente questa storia dell’amore divino forma l’oggetto del culto e della spiritualità del Cuore di Cristo [138] .
Anche questo è, quindi, uno degli aspetti da considerare [139] .
La «Parola» di rivelazione di Dio è «Amore» (1 Gv 4, 8), tanto che la stessa fede, quale apertura dell’uomo a Dio, è un credere all’amore.
Dal punto di vista lessicale, il verbo amare, in greco agapan, conosce un originale salto semantico dal greco classico, dove ha il vago significato di «riverire con affetto, prendersi cura», al greco biblico della LXX e soprattutto neotestamentario, dove acquista il significato tecnico di «amare gratuitamente e per traboccamento» [140] . Nel concetto di amore – agape costatiamo innanzitutto una straordinaria polisemia: questa più che renderne difficile la comprensione ne rivela la densità e la profondità. Di quale amore si tratta? L’amore agapico si differenzia sia da quello erotico (eros), in quanto non è mosso da concupiscenza, sia da quello amicale (philìa), poiché non è motivato da alcun titolo inerente all’amato. Inoltre non è possibile restringere l’amore agapico nemmeno ad un mero concetto di virtù fosse anche la massima (Col 3, 14). In altre parole è certo che ridurre la visuale della comprensione dell’ agape, quale assoluto che identifica il cristiano (cf 1 Cor 13, 2b), ad un orizzonte puramente inter – umano, significherebbe cogliere una sola dimensione di una realtà l’esperienza umana storica. Essa richiede e fonda un linguaggio nuovo che probabilmente non si lascia circoscrivere nei termini del vocabolario umano. Di questo è ben cosciente san Paolo quando nell’inno dell’agape paragona la terminologia umana dell’amore al balbettare di un bambino (cf 1 Cor 13, 11). Egli non sa far altro che elencare quindici qualità dell’agire umano che rimandano all’agape ma senza esaurirla (cf 1 Cor 13, 4 – 7) [141] . Infatti l’agape è una realtà che per natura sua partecipa alla stessa ricchezza di Dio, anzi, è il suo stesso essere, di cui, nella storia umana, non è possibile cogliere che un frammento.
Dunque è nel mistero e nascondimento di Dio che il cristiano trova il fondamento ultimo dell’amore, e di esso potrà aver notizia solo attraverso la conoscenza di fede dell’autorivelazione del «Dio dell’amore» (2 Cor 13,11).
L’ «agape di Dio» ovvero «l’essere stesso di Dio come amore» è anche il luogo teologico che rende possibile ogni sua comprensione: «Lui è l’amore e soltanto nell’amore e quindi nella libertà può essere concepito» [142] . Infatti, rivelando il suo volto, Dio stabilisce anche le regole del nostro rapporto con lui: ci indica, cioè, il principio epistemico che deve caratterizzare dinamicamente il nostro modo di pensare e parlare di Dio.
Ora, poiché l’ autoesplicazione dell’unico mistero di Dio è avvenuta, in modo conclusivo e riassuntivo, in Gesù Cristo, il quale è l’autocomunicazione di Dio in persona, il mistero di Dio resosi manifesto, egli è per eccellenza anche il cammino (metà – odos) per giungere a tale conoscenza. La «logica» dell’ amore agapico, che è logica di un amore che si fa condiscendenza, umiliazione e kenosi, diventa la «forma di rivelazione» che regola la comprensione cristiana della fede e della teologia a partire dalla storia concreta di Gesù Cristo culminante con la sua morte di croce.
3.2.1.1 Il Dio dell’alleanza
L’amore di Dio realizzato negli interventi in favore di Israele, storicamente si qualifica in termini diversi, differentemente resi dalla capacità interpretativa degli scrittori biblici [143] . Dio dei Padri, conosciuto nella sua unità e trascendenza, alterità e libertà rispetto all’uomo e al mondo, viene a identificarsi – soprattutto dopo l’esperienza esodale – con il Dio vicino (Es 3,12), il liberatore d’Israele (Es 3,15; 20,2; Dt 5,6), il Dio dell’alleanza (Es 19).
Israele ha riletto attraverso lo schema culturale dell’alleanza (berîth) il suo rapporto con Dio: in modo assolutamente libero e personale egli rivolge il suo sguardo agli uomini stabilendo con loro un rapporto di amicizia. Inoltre, tale esperienza è diventata il parametro con il quale misurare la storia precedente dell’esodo e quella successiva. Sarà tuttavia la teologia profetica ad approfondire ulteriormente il senso del nome di Jahvè come Dio salvatore, testimoniando il suo amoroso volgersi verso il suo popolo, nel quadro dell’alleanza. Essa è vista come esperienza della sua «fedeltà» (émeth), «giustizia» (sedaqah) e «bontà» (hésed), che richiede conformità ed obbedienza da parte dell’uomo, dai profeti dai profeti e dal Deuteronomio è espressa in termini di «amore agapico» (‘ahabha). Con tale linguaggio si reagisce ad ogni materializzazione e riduzione a contratto del rapporto di alleanza e nel contempo viene sottolineata l’iniziativa gratuita ed assoluta da parte di Dio che si esprime talora con accenti di amore coniugale (Os 2, 21; Ger 2, 2; 3, 7; Ez 16; Is 50, 1; 54, 5 – 7) talora di amore paterno (Dt 14, 1; 32, 5; Os 11, 1 – 4; Is 1, 2; 63, 16; 64, 7; Ger 3, 14. 22; 31, 20) e talora con di amore materno (Os 11, 3 – 4; Is 49, 14 – 16; 66,13; Ger 31, 20).
Nella rivelazione dell’amore di Dio come anima dell’alleanza culmina quella visione di Dio che, pur nella sua trascendenza rispetto al mondo ed alla storia, si manifesta intimamente «presente» e sollecito verso il «suo» popolo (Ez 34; Mic 4, 6; Sof 3, 19; Ger 31, 9). Infatti, se con il profetismo l’affermazione del monoteismo assume un carattere pratico, il riconoscimento di questa ineffabilità, trascendenza e santità di Dio (Is 41, 4; 43, 11; 46, 4; 48, 12) fonda altresì la coscienza che l’infinità del suo amore supera ogni distanza: è il Santo d’Israele che si china sui cuori contriti (Is 57,15). In definitiva è questa la rivelazione del volto pathetico di Dio, di un Dio che non è chiuso in una pienezza assoluta e ripiegata su se stessa, ma che vive nella storia ed è coinvolto in questa: egli «ascolta il grido» del popolo d’Israele (Is 41, 17), ne «ha pietà» (Is 49, 13) e lo «consola» (Is 40, 1). Nel suo pathosdi amore Dio esce da se stesso, è conosciuto dall’uomo si occupa di lui e con lui stabilisce una relazione interpersonale, un dialogo di alleanza. Il suo pathos diventa così il luogo di incontro tra lui, il Vivente, l’Eterno e l’uomo: attraverso la libera premura e compassione Colui che è il remoto, l’inafferrabile e l’ineffabile diventa il vicino, il coinvolto, l’interessato [144] .
3.2.1.2 Il nuovo volto di Dio
Per quanto la teologia profetica abbia orientato costantemente Israele verso un’immagine passionale di Dio in cui il richiamo all’amore per l’uomo (antropopatia) si esprime con accenti di bontà, fedeltà, giustizia e amore, l’assenza della rivelazione trinitaria di Dio ha reso tale rivelazione dell’amore – ancora incompiuta: nell’Antico Testamento, ogni manifestazione di amore si colloca, all’interno dell’immagine di Dio Signore: rivelazione più che dell’«amore assoluto» di Dio della sua «potenza assoluta» [145] .
Stando alla convinzione cristiana, questa autoesplicazione dell’unico mistero di Dio avviene, in modo conclusivo e riassuntivo, in Gesù Cristo. É lui che, facendoci penetrare nella inaccessibilità divina, poiché «Dio non lo ha mai veduto nessuno: l’unico Figlio, che vive nel seno del Padre, lui ce ne ha dato notizia» (Gv 1, 18), ci ha dato la rivelazione piena e definitiva di un Dio che: «…ha tanto amato il mondo da dare il Figlio suo, l’Unigenito, perchè chiunque crede in lui non perisca ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16). É questa la suprema manifestazione dell’amore del Padre (1 Gv 4, 9 – 10) per la quale è possibile dire che Dio è per definizione amore (1 Gv 4, 8. 16). Dalla manifestazione storica, dal farsi presente nella carne di Cristo della realtà divina dell’amore, è possibile risalire a scandagliare l’essere profondo del Padre, scoprendo che l’amore da lui rivelato nella storia rappresenta non un momento periferico della sua personalità, nè un additivo complementare ma la sua qualifica ontologica di fondo.
L’immagine veterotestamentaria di Dio trova dunque un compimento rivelativo nella missione di Gesù di Nazaret. Questa «nuova» immagine non è in totale rottura con l’immagine di Dio rivelata nell’Antico Testamento, nè con ogni precomprensione umana di Dio ma ci porta verso una radicalizzazione, approfondimento e adempimento. Nel contempo, possiamo parlare di una conoscenza «nuova» di Dio perchè comporta inevitabilmente una certa crisi e superamento del modo puramente umano di rappresentarcelo [146] .
Il «luogo originario» di tale rivelazione del vero volto di Dio è la vita di Gesù di Nazaret: il senso nuovo del parlare di Gesù di Dio non può essere colto se non considerando il senso della sua missione rivelato dal suo messaggio e dal suo comportamento, dalla sua preghiera ed in particolare dalla sua morte e resurrezione.
Così l’annuncio del Regno è l’annuncio che la vita stessa di Dio irrompe nella storia degli uomini, che Dio si è fatto vicino ai poveri, ai piccoli ed ai peccatori per cui è impossibile riconoscerlo ed accoglierlo come unico Signore, «amarlo con tutto il cuore», senza amare con amore solidale «come se stessi» il prossimo senza distinzioni, come fa appunto il Padre che è nei cieli (cf Mt 5, 43 – 48). Questa predicazione di Gesù diventa pienamente comprensibile soprattutto illuminata dalla luce della sua «prassi», dal linguaggio dei fatti. Gesù caratterizza la sua prassi, lo stile dominante della sua esistenza terrestre con quella tensione di amore verso l’uomo, nel dono radicale di sé, che si realizza nel bere il calice della passione «per i molti», per tutti (Mc 14, 24; Lc 22,19 – 20 ): è l’amore sacrificale che domina l’esistenza di Gesù in un’attitudine «oblativa» come «essere per gli altri», pro-esistenza. Gesù ha offerto la sua esistenza (Gv 10, 17), l’ha consegnata alla morte per amore del Padre. Un amore che egli vive con grande concretezza, come «obbedienza», «osservanza dei comandamenti del Padre suo» (Gv15, 10), e, per questo, non riducibile ad inoperosi pensieri e sentimenti [147] .
In tutta la sua vita storica il Figlio dell’Uomo è venuto, infatti, per servire (Mc 10, 45), per ricercare i poveri e i peccatori, testimoniando non solo la misericordia, ma una così totale dedizione da non poter trovare un’adeguata motivazione su di un piano unicamente antropologico: non è giustificabile in un ambito unicamente orizzontale dell’essere per gli altri. Questo amore fino al sacrificio di sé si può veramente comprendere non tanto vedendovi l’espressione suprema dell’amore umano, quanto piuttosto l’amore divino, la cui misura non è di questo mondo, cioè di un partner divino verso il quale esso si porta da tutta l’eternità [148] . É così che la pro – esistenzadi Gesù manifesta la pro – esistenza di Dio.
In realtà, nella vita di Gesù, nella sua parola, nei suoi gesti e misteri salvifici, si rivela un modo di amare assolutamente inedito per l’esperienza umana dell’amore che si esprime soprattutto nell’esperienza della croce. L’amore per gli altri, nell’ordine puramente antropologico, è sempre condizionato dal rispetto e dall’amore verso se stessi. L’amore per gli altri resta perciò condizionato dall’amor sui, dalla «passione di sé»: L’uomo non può, naturalmente svuotarsi interamente di se stesso per «essere per gli altri» senza rischiare la distruzione in sé di ogni parametro di valore, che finirebbe per distruggere a sua volta ogni motivazione della stessa dedizione agli altri. L’essere per gli altri di Gesù, così radicale fino alla croce, all’annientamento di sé (kenosi), che trascende i modelli categoriali antropologici diviene comprensibile solo se inserito in un processo positivo di amore. La dedizione di Gesù è infatti radicata nel dono di un Altro che la precede e la suscita: l’amore del Padre (Gv 15, 9). Gesù è l’uomo che si dona così totalmente agli altri, nella kenosi di se stesso perché un Altro si è dato totalmente a lui. Il suo cuore umano è vuoto di sé perché colmo dell’amore del Padre. La radice ultima della pro – esistenza di Gesù è trinitaria.
Nella croce si riconosce quindi il luogo in cui il pathos di Dio si riversa sull’uomo in un amplesso salvifico di amore assoluto: l’amore di questo Padre che offre il Figlio amato ed obbediente per noi (Rm 5,8), ma che non lo abbandona nell’oscurità della morte, ma lo esalta resuscitandolo (Gv 12, 32) nella potenza dello Spirito Santo (Rm 8, 11).
É solo questo Dio «uno e identico» che vive una vita di amore tripersonale che può autotrascendersi nella creazione senza perdere se stesso. Solo questo Dio di Gesù Cristo può dunque divenire veramente uomo in una kenosi che sia anche una reale vicenda che intimamente lo riguarda e che non lo lasci estraneo spettatore dell’incarnazione.
L’amore come agape, come «dono assoluto» anteriore a qualsiasi merito dell’uomo, nell’oscuro mistero della croce, manifesta così apertamente l’identità di Gesù Cristo nel suo duplice rapporto trinitario al Padre ed allo Spirito. L’offerta pura e totale del Figlio fino al sacrificio di sé nella morte ed appare come la risposta fedele a colui che è la sorgente prima di tale amore: il Padre. É lui infatti che ama assolutamente il Figlio ponendo tutto nelle sue mani (Gv 3, 35), che ama per primo sì che l’amore del Figlio rispecchia quello del Padre «come il Padre mi ha amato, così anch’io vi ho amati» (Gv 15, 9). L’amore del Padre è il principio e il modello dell’amore del Figlio (Gv13, 34) che egli offre ai suoi perché vivano in tale amore (Gv 13, 35).
L’intimo dialogo di Dio che si manifesta nel comportamento di Gesù di Nazaret non si limita al rapporto di paternità e filiazione. La coscienza di Gesù di essere «amato dal Padre», di essere il suo «Figlio diletto» (Mc 12,6; cf 1, 11; 9, 7; Gv 3, 35; 5, 20; 10, 17) e che si esprime nell’attitudine verso di lui, nella lode e nel ringraziamento (Mt 11, 25 – 27; Lc 10, 21 – 22) ci mostra che questo dialogo intradivino si trascende perennemente nello Spirito. Il mistero trinitario dello Spirito comporta quindi in Dio, non solo quel trascendimento perenne per cui nell’amore si dona il Figlio in una perfetta comunione con Lui, ma anche quell’effondersi illimitato di questo stesso amore come «extasis», come «dono universale». É qui che la proesistenza di Gesù trova la sua motivazione trinitaria: lo Spirito, colui che scaturisce dalla sovrabbondanza dell’amore tra Padre e Figlio, rivela la realtà estatica di Dio per cui egli in modo inalienabile si riferisce al mondo ed alla storia. Sta proprio in questo interpersonalismo trinitario non solo la possibilità del Dio di Gesù Cristo di coinvolgersi nell’altro da sé, in una storia di salvezza, ma anche nel suo illimitato donarsi ad extra che fonda l’universalismo di questa storia. Sul piano storico salvifico, infatti, l’offerta senza limiti del Figlio dell’uomo «per i molti» e «per tutti», presuppone l’apertura di Dio al mondo e la comunicazione che questo fa di se stesso [149] .
A questa rivelazione corrisponde, nell’uomo, la fede come conoscenza di Dio in quanto amore la quale è prima di tutto esperienziale «da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la sua vita per noi» (1 Gv 3, 16); «…noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi» (1 Gv 4, 16). I cristiani prima di essere degli amanti sono degli amati (Rm 1, 7; 2 Ts 2, 13; cf 1 Ts 1, 4): essi sono coinvolti, per mezzo del dono dello Spirito effuso nei loro cuori (Rm 5,5), nella stessa corrente di amore che unisce il Padre e il Figlio (Gv 14, 20 – 21), divenendo a loro volta capaci dello stesso amare ed adempiendo il «comandamento nuovo»: «Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 14, 34; 15, 12; 1 Gv 3, 11).
3.2.2 Centro intimo della persona
Una seconda via per dare un fondamento biblico e teologico alla devozione del Cuore di Gesù è stata quella intrapresa per la prima volta dai sostenitori della teoria del «cor ethicum» [150] , elaborata proprio in base ai risultati della ricerca promossa dal rinnovamento biblico e dello studio delle civiltà semitiche e mediorientali.
La tesi, scritturisticamente solida, si rifà all’accezione biblica secondo la quale il cuore, nel linguaggio semitico, è un termine che designa l’intimità della persona con tutte le sue ricchezze interiori.
Anche le riflessioni antropologiche e le particolari interpretazioni filosofiche dell’essere umano, ci portano – per un cammino diverso – a simili conclusioni. Una per tutte, è indicativa la definizione di Karl Rahner: cuore è centro personale interiore che si manifesta e si esercita nella realtà corporale [151] .
Anticipando le conclusioni del discorso, diremo che, in realtà, questo secondo aspetto, nel valorizzare il discorso simbolico del cuore seguendo la via dell’antropologia biblica, non si oppone al primo, poiché si verifica una complementarietà di significati: il Cuore di Gesù è simbolo naturale del suo amore e nello stesso tempo designa il suo essere personale più intimo, ciò che potremmo chiamare, la sua coscienza [152] .
Volendo dunque penetrare nel mistero della persona Gesù, della sua coscienza, cioè del Cuore umano di Gesù, è necessario prendere in considerazione gli aspetti fondamentali della coscienza umana di Gesù come la sua coscienza di rendere presente tra gli uomini il Regno di Dio, la sua obbedienza al piano del Padre, e soprattutto la sua coscienza di essere Figlio del Padre [153] .
La coscienza che Gesù possiede della sua singolare relazione filiale con il «Padre suo» [154] è il fondamento e il presupposto della sua «coscienza messianica» e della missione di annunciare ed inaugurare il Regno di Dio e renderlo presente nella sua persona, nei suoi gesti e nelle sue parole, affinché il mondo sia riconciliato con Dio e rinnovato [155] .
Un altro aspetto della coscienza di Gesù è la sua obbedienza: Gesù ha offerto la sua esistenza (Gv 10, 17), l’ha consegnata alla morte per amore del Padre. L’obbedienza di Gesù un è stata solo un «esempio» che egli volle darci, ma fu per lui un atteggiamento profondo di cui gli evangelisti hanno voluto rilevare la costanza. L’esistenza di Gesù è sotto il segno dell’obbedienza al Padre e lo stesso mistero della kenosi è innanzitutto a sua volta risultato di quest’obbedienza – uniformità spontanea (Eb 10, 5 – 7) della volontà del Figlio con il Padre non solo per il fatto di esser divenuto uomo ma anche nel voler divenire uomo, annichilendosi ed abbassandosi. Tale obbedienza – diremo con Hans Urs von Balthasar – costituisce la «forma kenotica» dell’amore eterno del Figlio nei confronti del Padre. E quindi, se nell’eternità il Figlio e il Padre si amano nello Spirito, nella sua esistenza terrena il Figlio obbedisce ed ama il Padre nello Spirito [156] .
Ma è la coscienza filiale di Gesù che in un certo senso «precede» la sua obbedienza: infatti, come si esprime la Lettera agli Ebrei «…pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5, 8). L’obbedienza è un atteggiamento fondamentale della sua natura umana; l’atteggiamento filiale proviene dalla sua vita divina, intratrinitaria. Nella fisionomia filiale di Gesù la sua stessa missione trova il suo vertice nella rivelazione della paternità di Dio (Gv 17, 26) [157] .
3.2.2.1 Le «pene intime» del Cuore di Gesù
Completando la presente digressione, è necessario aprire qui una parentesi per illustrare uno degli aspetti connessi al tema del cuore sinonimo di interiorità, e cioè, la dinamica che ha portato ad intendere l’espressione «Cuore di Gesù» con lo stesso significato di «interiorità di Gesù».
Nella antropologia biblica il cuore è anche sede delle funzioni intellettive ed il luogo da cui viene il progettare e il volere [158] . Per questo, cogliendone bene il senso, di consueto la LXX «interpreta» e traduce lêb (cuore) con noûs (mente, intelletto) considerando le due parole equivalenti [159] . Gli scrittori cristiani dei primi secoli conservano in linea di massima un linguaggio biblico, anche riguardo all’uso della parola cuore. Ma già dal III secolo i Padri tentarono di spiegare intellettualisticamente tutto ciò che trovavano di insolito nei sensi scritturistici di kardia [160] . Ciò nasceva dal bisogno e dallo sforzo di spiegare il termine biblico a persone per le quali il cuore aveva un valore pressoché anatomo – fisiologico [161] . Singolarmente solo lo stoicismo considerava il cuore come l’organo centrale (to eghemonikòn) della vita spirituale, la sede della ragione, dalla quale promanano il sentire, il volere ed il pensare. Così Origene condividendo questa dottrina – per tali aspetti molto vicina all’uso biblico – parla del «cuore» del Signore come dell’eghemonikòn, della sua fonte dei pensieri e della saggezza dalla quale l’uomo spirituale deve «bere l’acqua viva della sapienza»; e, commentando il posar del capo dell’apostolo Giovanni sul petto di Gesù, scrive che «egli si trovava molto vicino all’intelletto del maestro e che più di ogni altro poteva penetrare nell’intimità della sua dottrina» [162] . Queste idee origeniane saranno riprese fedelmente da autori vicini al teologo alessandrino come Gregorio Nisseno, Evagrio Pontico ed altri, e manterranno un certo influsso – tramite Ambrogio [163] ed Agostino [164] – sull’intera mistica ed ascetica medievale [165] .
Alle porte dell’epoca moderna troviamo ancora nella metafora del cuore elementi affettivi e intellettuali: essa poteva indicare nel contempo l’emotività (la comprensione del cuore come simbolo dell’amore) e l’interiorità [166] . Tale binomio era dato dal fatto che la psicologia del tempo, probabilmente sotto l’influsso di uno stoicismo allora molto diffuso, poneva le radici dell’affettività e dell’amore nella volontà considerata come una facoltà unica, avente la sua sorgente nelle aspirazioni essenziali della nostra natura ma che si determinano secondo la nostra ragione [167] .
A questa complessa concezione del termine «cuore», agli inizi del secolo XVII, fa dunque appello la nozione di interiorità, e, di conseguenza, parlare del «Cuore di Gesù» significa parlare della sua interiorità. Infatti per diversi autori spirituali dell’epoca, come Pierre de Berulle e Giovanni Eudes, «Cuore di Gesù» ed «interiorità di Gesù» sono considerati come sinonimi [168] . L’espressione «interiorità di Gesù» figura già in diversi scrittori spirituali del Paesi Bassi già fin dal XVII secolo. Essa è intermediaria dell’attenzione alla sua umanità sofferente, in particolare nella meditazioni della passione, più che della psicologia di Cristo. La corrente della mistica renana, a sua volta, influenzerà la spiritualità oratoriana. Gli autori dell’Oratorio di Gesù si soffermano spesso a considerare le «actions intérieures et spirituelles de l’âme de Jésus», indugiando non di rado nello psicologismo [169] . Ad ogni modo, l’attenzione al cuore – interiorità di Gesù anche qui ha dei fini spirituali: se la ragion d’essere dei cristiani è imitare Cristo, ciò vale soprattutto nell’essere totalmente conformi alla sua stessa interiorità, nell’uniformarsi al suo cuore [170] . Il testo di Matteo: «…imparate da me che sono mite ed umile di cuore» (Mt 11, 29) diventa il topos maggiormente frequentato da queste letture spirituali [171] , e, meditando ed interrogandosi in particolare sui sentimenti e le sofferenze interiori di Gesù durante la passione, si cerca di compatire attraverso un approccio mistico le stesse «pene intime» del suo Cuore [172] . La spiritualità del Cuore di Gesù assume i tratti di una spiritualità riparatrice [173] .
3.2.2.2 «…ha amato con cuore d’uomo»
Il simbolo del Cuore di Cristo colto nella valenza epifanica del centro intimo della persona, dei suoi affetti e sentimenti, spesso ha mediato la comprensione della autenticità dell’umanità di Cristo.
Con l’HA rileviamo questo tema già negli scritti dei Padri secondo cui
«…lo scopo per cui Gesù assunse una natura umana integra e un corpo caduco e fragile come il nostro, fu appunto quello di provvedere alla nostra salvezza eterna e di manifestare a noi nel modo più evidente il suo amore infinito, compreso quello sensibile» [174] .
Basilio e Giovanni Damasceno affermano che gli affetti sensibili di Cristo furono ad un tempo veri e santi [175] . Ambrogio vede nell’unione ipostatica la sorgente delle affezioni e commozioni, cui andò soggetto il Verbo di Dio fatto uomo [176] ed Agostino coglie l’intimo nesso tra le affezioni sensibili del Verbo incarnato ed il fine della redenzione umana [177] .
Anche il Concilio Vaticano II, richiamandosi ai concili di Calcedonia, Costantinopoli II e per due volte Costantinopoli III, ha approfondito la comprensione della piena umanità di Gesù, «uomo nuovo» utilizzando, fra l’altro, il simbolismo del cuore nel senso precedentemente illustrato:
«…con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo» [178] .
L’ aver «amato con cuore d’uomo» sottolinea il fatto che Gesù anche come uomo ha amato il Padre, si è sentito «figlio», ha obbedito, ha voluto la nostra salvezza [179] .
Ciò che i testi evangelici mettono sotto i nostri occhi è l’amore umano di Gesù; così avviene della bontà che egli testimonia a Zaccheo (cf Lc 19, 1 – 10) ed alla peccatrice pentita (cf Lc 7, 36 – 50), dell’amicizia manifestata in occasione della morte di Lazzaro (cf Gv 11, 1 – 44), della commozione di fronte alla madre che accompagna il figlio unico alla tomba (cf Lc 7, 13) e della «compassione per le folle stanche e sfinite» (Mt 9, 36) [180] , dell’affetto con il quale abbraccia i bambini (cf Lc 18, 15 – 17), e dei diversi atteggiamenti di benevolenza verso coloro che incontra: in questi rapporti Gesù ha dimostrato un amore attento, delicato e pieno di tenerezza (Mc 10, 21). Anche l’amore rivolto al Padre, quale si esprime nel termine familiare «Abbà», è un amore umano. É vero che questo amore umano rivela l’amore divino, al punto che chi vede Gesù vede il Padre (cf Gv 14, 9): ma ciò che appare direttamente è l’amore umano. Non si ha dunque torto a parlare del cuore umano di Cristo [181] . Bisogna aggiungere che questo cuore umano è quello di una persona divina: è la persona del Figlio quella che ama, ed ama umanamente, il Padre e gli uomini. La persona divina è il principio di un amore umano e nonostante questo l’umanità assunta dal Verbo non è stata annientata, ma innalzata ad una dignità sublime. In realtà, questo cuore umano, nell’essere immagine della persona, nel suo essere relazionale [182] , nel suo singolare porsi di fronte a Dio e ad ogni uomo, nella sua unica capacità di amare in maniera assoluta, rivela «un nuovo carattere di umanità» in cui il cuore, libero dal predomino di un io egocentrico, dipenda da una nuova pienezza di essere: quella dell’amore che si espande sull’altro nel radicale dono di sé possibile solo perché Dio, Amore assoluto, vi ha fatto irruzione in modo unico e sovrano [183] . É questa la proposta di novità di vita, l’altissima vocazione che Cristo, nuovo Adamo, manifestando «il mistero del Padre e del suo amore», rivela all’uomo. In Cristo che è «immagine del Dio invisibile» (Col 1, 15; cf 2 Cor 4,4), «l’uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio» [184] , si dà la risposta suprema che nel versante antropologico rimarrebbe come un interrogativo aperto, un cor inquietum [185] , pura potentia oboedientialis. Il mistero del cuore di Cristo è dunque la risposta trascendente di Dio al mistero del cuore dell’uomo [186] .
3.2.3 «Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza» (Is 12, 3)
Un terzo tipo di approccio possibile al mistero del Cuore di Gesù è la lettura simbolica – nel senso precedentemente spiegato – del brano giovanneo della trafittura del costato di Cristo (Gv 19, 34 – 39).
É in questa icone biblica che, più di ogni altra, la tradizione ha contemplato il Cuore di Cristo, sviluppandone non solo il ricco significato teologico del simbolo biblico ma anche la straordinaria ricchezza di contenuti dell’evento.
Questa comprensione «dinamica» del testo è l’evangelista stesso a promuoverla: descrivendo il fatto storico, egli conduce la narrazione su due livelli paralleli. La storia non si ferma alla superficie dei fatti ma è gravida di un fondamentale aspetto simbolico che ne fa emergere il mistero. L’episodio ci è presentato da Giovanni come il punto finale della vita terrena e del sacrificio di Cristo: è il momento topico della manifestazione l’amore «eccessivo» con cui noi siamo stati amati. Egli, che aveva sottolineato espressamente l’amore di Cristo nella sua passione e nella sua morte (Gv 13, 1; 15, 13), sembra voler attirare la nostra attenzione come sulla chiave dell’opera redentrice, mostrandoci il costato di Gesù aperto dal colpo di lancia e lo scorrere dell’acqua e del sangue. Essi sono simboli che rivelano il significato della vita e della morte di Gesù. In questo senso si può dire che l’ora della croce, è il momento culminante della vita di Gesù. Ma qui, come sempre nella teologia giovannea, l’elemento determinante è quello della rivelazione del mistero di Cristo. I simboli del sangue, dell’acqua e del costato apertorivelano ciò che Gesù viveva e voleva interiormente, prima ancora di morire [187] . Il consummatum est di Gesù morente esprime la sua totale obbedienza alla volontà del Padre, perché ha perfettamente portato a compimento il disegno messianico indicato nella Scrittura (vv. 28 e 30); d’altra parte il parallelismo con 13, 1 («…dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine») mostra il compimento della croce come il momento in cui è stata raggiunta la manifestazione suprema dell’amore salvifico di Cristo per i suoi.
Giovanni è l’unico che ci presenta, con insistenza, questo «segno» del costato trafitto: (19, 31 – 37 e 20, 25. 27; cf anche Ap 1, 7 – 8) e, simultaneamente, la morte di Gesù e lo sgorgare della vita. Sulla croce si manifesta un cuore ferito a morte: un cuore che nell’istante stesso in cui è colpito, lascia prorompere la sorgente della vita, l’acqua e il sangue, segni di resurrezione. Come dice Origene, «non fu come gli altri morti; ma dal più profondo di questa morte manifestò segni di vita nell’acqua e nel sangue e fu, per così dire un morto nuovo» [188] . Ora, il colpo di lancia e lo scorrere dell’acqua e del sangue devono essere letti in continuità della simbolica giovanea, dell’acqua, dello spirito e del sangue.
Nella più stretta unità temporale, è narrata una duplice azione storica e simbolica: da un lato la trafittura, l’ultimo rito di immolazione praticato sul vero Agnello pasquale (Gv 19, 36); dall’altro l’apertura del costato, ossia della sorgente dell’acqua viva che rappresenta l’effusione dello Spirito e della sua fecondità spirituale promessi da Gesù ai credenti in lui «nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa» quando, levatosi in piedi esclamò a gran voce: «…chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura, fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno»(Gv 7, 37 – 39) [189] .
I riferimenti veterotestamentari di questo passo sono principalmente due: la rievocazione di Es 12, 46 del rito dell’agnello pasquale al quale non si dovevano spezzare le ossa; ed il testo di Zaccaria 12, 10 e 13, 1: «guarderanno a colui che hanno trafitto». Il passo è la chiave interpretativa del «sangue ed acqua» scaturiti dal fianco aperto del crocifisso. L’allusione a Zac 12, 10 richiama il contesto profetico in cui si annuncia l’effusione escatologica dello spirito di grazia e di implorazione sugli abitanti di Gerusalemme, la loro conversione e l’apertura di una fonte zampillante per la casa di Davide (13, 1) dal lato del Tempio escatologico (cf anche 14, 8 ed Ez 47, 1 – 12) [190] . Per questo dono escatologico dello Spirito, conformemente alla pagina profetica, in Gv 19, 37 (che diventa così la realizzazione di Gv 7, 37 – 39) si porge un richiamo a tutti gli uomini alla visione, nella fede, di Cristo crocifisso e, mediante questa fede, alla salvezza [191] .
Già a partire dalla considerazione del particolare della sete di Gesù morente, dato reale, ma che nel contesto del quarto evangelo richiama altri testi che possiedono punti di contatto sorprendenti con la sete del Calvario (4, 13 – 15; 7, 37). In questi passi Gesù manifesta il suo vivo desiderio di dare «l’acqua viva», quindi, la sete reale di Gesù appare, qui sulla croce, come il segno di un suo profondo desiderio interiore, manifestazione suprema di quel desiderio messianico che nell’ora si compie (19, 28b. 30): mentre Gesù ha sete e gli uomini non comprendono il suo desiderio, dandogli da bere aceto (19, 29), egli fa ad essi il dono dell’acqua viva, cioè della sua suprema rivelazione attraverso il dono dello Spirito annunciato con l’emissione del suo alito di vita (19, 30). Gesù porta dunque a compimento la sua «sete», il suo ardente desiderio di ricolmare di questo dono la Madre ed il discepolo diletto, cioè la Chiesa madre ed i credenti che nella fede, da lei hanno la vita e l’accolgono [192] .
La medesima tensione morte – vita, che dà significata all’episodio della trafittura del costato, si ritrova nel simbolismo più particolare del sangue. Il sangue appare come il simbolo e la rivelazione dell’adesione di Gesù alla volontà di Dio, della sua obbedienza oblativa al Padre e del suo amore salvifico per noi.
Ma il valore simbolico dell’evento e le correlazioni letterarie del brano con altri testi aprono qui ampie prospettive in diverse direzioni. L’acqua che esce dal costato aperto di Gesù simboleggia il suo Spirito che egli comunica e con il quale diventa possibile anche per il chi «volgerà lo sguardo» con fede partecipare alle sue disposizioni profonde. Lo sguardo penetrante del credente mira quindi a scoprire il mistero dell’interiorità di Cristo, attraverso i simboli del sangue e dell’acqua, ma anche a partecipare, nello Spirito, a quella vita profonda di Cristo, ai suoi atteggiamenti di oblazione e di amore. Se esteriormente, l’oggetto del guardare può essere colto solo in ciò che viene descritto nel v. 34: il costato trafitto da cui esce sangue ed acqua (anche i soldati videro che Gesù era già morto…); l’invito è che lo sguardo esteriore diventa contemplazione di fede, esperienza interiore: «affinchè anche voi crediate». Ora, l’ «atto di vedere» (nella teologia giovannea il «vedere» ed il «credere» sono associati intimamente) il trafitto si presenta come la risposta degli uomini all’attrazione del Cristo esaltato sulla croce (cf Gv 3, 14; 8, 28; 12, 31 – 33), cioè alla sua rivelazione, alla manifestazione della sua regalità vittoriosa, fortemente sottolineata da Giovanni in tutto il racconto della passione: indica la perfetta disponibilità e apertura verso ciò che Gesù rivela sulla croce [193] . L’invito a volgere «lo sguardo verso il trafitto» (v. 37) ed a condividere la fede del discepolo nel senso salvifico dell’evento, delinea, quindi, una tipologizzazione e simbolizzazione della Chiesa nella figura dello stesso discepolo: la sua esperienza e fede iniziale di cui egli continua a rendere testimonianza nella comunità (v. 35), devono diventare l’esperienza e la fede di tutti nella Chiesa. «Il discepolo che Gesù amava» (cf 19, 26) diventa così il modello di tutti i discepoli [194] .
Questa scena finale conclude la storia della passione del quarto evangelo con l’appello alla fede pasquale in cui si fonda la visione insieme cristologica, pneumatologica ed ecclesiologica di tutta la narrazione [195] .
Per ultimo va citata la particolare fecondità del passo del quarto evangelo nell’esegesi dei Padri: attraverso la ferita del costato è possibile giungere alla contemplazione dell’amore redentore [196] .
In sintesi sono tre i temi dedotti dal testo giovanneo sui quali sui raccoglierà la meditazione dei teologi e dei mistici dei secoli successivi: il tema dell’acqua e del sangue, simboli dei sacramenti (a volte identificati con il battesimo e l’eucaristia) [197] ; il tema della Chiesa, nuova Eva, che nasce dal costato di Cristo, secondo Adamo [198] ; il tema del costato «aperto», per il quale si può avere accesso alla sorgente della vita [199] .
L’icona del costato trafitto, sorgente della vita che nasce dalla morte, costituisce la sintesi della struttura stessa del mistero pasquale, manifestazione della misericordia del Padre. Facciamo nostre le parole della Dives in Misericordia:
«La Chiesa sembra professare in modo particolare la misericordia di Dio e venerarla, rivolgendosi al cuore di Cristo. Infatti, proprio l’accostarsi a Cristo nel mistero del suo cuore ci consente di soffermarci su questo punto – in un certo senso, centrale e, nello stesso tempo, più accessibile sul piano umano – della rivelazione dell’amore misericordioso del Padre, che ha costituto il contenuto centrale della missione messianica del Figlio dell’uomo» [200] .
Il cuore umano di Gesù, fonte del suo «essere per», è «sacramento dell’amore trinitario». Il momento della kenosi sacrificale che coincide con l’uccisione di croce inflitta a Cristo dalla malvagità umana, rivela in realtà, proprio nella trafittura del colpo di lancia, quella apertura interiore del cuore umano che è determinata in lui dalla carità trinitaria di Dio. La «pro-esistenza kenotica» non è allora segno solo della negatività del peccato umano che proietta la sua ombra sul Crocifisso, quanto, molto più, è il sacramento dell’infinita carità trinitaria di Dio. La lacerazione del cuore del Redentore è come il segno dell’impossibile contenimento di quella passione trinitaria dell’agape che si rivela nell’irresistibile espansione di sè (amore estatico). É così che la pro-esistenza di Gesù nella croce affonda le sue radici in quell’amore del Padre che non risparmia il proprio Figlio consegnandolo per noi tutti (Rm 8,32) mentre nella sua autoconsegna, nella morte, il Figlio, offre se stesso «con uno Spirito eterno» (Eb 9, 14), determinando con la liberazione dell’uomo dal peccato la nascita della nuova creazione [201] .
É possibile dire che i tre significati del segno simbolico, le tre piste che insieme riflessione e contemplazione possono percorrere per penetrare nel mistero del cuore del Verbo incarnato, lungi dall’opporsi, si completano e convergono verso un medesimo punto finale: il dramma d’amore fra Dio e l’uomo, il mistero dell’alleanza che esprime quella che è la legge fondamentale della storia della salvezza, il disegno sovrano di Dio che si attualizza nel tempo attraverso un dialogo con la libertà dell’uomo.
Nel realizzare questo suo progetto di salvezza Dio sollecita l’uomo ad accogliere l’offerta del suo amore. Ma la risposta dell’uomo all’iniziativa di misericordia di Dio è inadeguata, estrinseca, corrotta dall’infedeltà finchè, in ciò che la Scrittura considera come il luogo per eccellenza dell’incontro dell’uomo con Dio, nel cuore, non venga stretta una «alleanza nuova» (Ger 31, 31 – 34). Se il movimento verso Dio, che i profeti continuamente richiedono alla volontà umana, nasce dal cuore (Ger 3, 10; 29, 13), significa che il cuore può diventare, mediante l’azione di Dio, il principio di una vita nuova e che la nuova creazione comincia con la trasformazione di un cuore di pietra in un cuore di carne (Ez 11, 19; 36,26; Sal 51, 12). Inoltre la circoncisione, segno dell’alleanza (Gen 17, 1 – 17), dev’essere del cuore e non esteriore (Lv 26, 41; Dt 10, 16; 30, 6; Ger 4, 4; 9, 25). L’alleanza escatologica profetizzata (cf Zac 9, 11; Is 55, 3; Ger 31, 31 – 34; 32, 39 – 44; 50, 5; Bar 2, 35) si realizza nel Verbo incarnato e per mezzo della sua missione redentrice (cf Eb 13, 20). La nuova alleanza si realizza in Gesù. L’esistenza di Gesù è larivelazione, nella modalità storica umana della sua pro – esistenza, del nuovo principio creativo dell’agape che riscatta l’uomo sollevandolo ad un nuovo progetto umano di esistenza [202] . Nel suo cuore umano, dunque, si è realizzata perfettamente l’alleanza tra Dio e l’uomo che è redenzione, comunione e partecipazione alla vita stessa di Dio (cf Gv 14, 15 – 21; 15). In altre parole, diremo con la enciclica Redemptor Hominis che l’opera redentrice
«è, nella sua più profonda radice, la pienezza della giustizia di un cuore umano: nel cuore del Figlio primogenito, perchè possa diventare giustizia dei cuori di molti uomini, i quali proprio nel Figlio primogenito sono stati, fin dall’eternità, predestinati a divenire figli di Dio e chiamati alla grazia, chiamati all’amore» [203] .
La nuova alleanza si realizza per mezzo di Gesù. Gesù ha considerato la sua attività messianica, che si conclude con la sua morte come adempimento dell’ alleanza escatologica, adempimento cioè di una nuova «disposizione» emanata da Dio a disciplina dei nuovi rapporti stabiliti tra lui e l’umanità [204] . E nell’ora pasquale del passaggio di Cristo al Padre (Gv 13, 1), nel sacrificio cruento dell’Agnello che toglie il peccato del mondo (Gv 1, 29), dal cui costato ferito sgorgheranno il sangue e l’acqua della redenzione (Gv 19, 33 – 36) si riassume il senso pasquale della incarnazione che esprime al massimo grado il mistero dell’alleanza, la rivelazione escatologica dell’amore di Dio.
La redenzione operata da Cristo diventa così la vera la circoncisione del cuore secondo lo spirito e non secondo la lettera (cf Rm 2, 28 – 29), cioè mediante una norma umana [205] ; rinnovamento interiore del cuore dei credenti, i quali accolgono positivamente l’offerta di salvezza di Dio, la sua alleanza.
CONCLUSIONE
Il metodo adeguato con cui la riflessione teologica si accosta alla devozione del Cuore di Gesù, per portarne a chiarezza riflessa i contenuti, e quindi darne una valutazione pastorale della devozione al Sacro Cuore è quello di considerare la sua natura di «devozione», ossia di particolare esperienza spirituale, nelle sue peculiarità e nella sua evoluzione storica.
Come ogni esperienza spirituale, anche, la devozione del Sacro Cuore utilizza un linguaggio eminentemente simbolico per esplicitare e comprendere il proprio oggetto. In questo sforzo di comprensione urge per la teologia, pur nel suo impegno sistematico di essere intellectus fidei, il compito di riscoprirsi essa stessa «simbolica», cioè di recuperare quella «mentalità simbolica» che ha trovato espressioni particolarmente significative negli scritti patristici e della teologia monastica [206] .
In quest’ottica, analizzando il simbolo della devozione, la teologia della devozione del Cuore di Gesù ha potuto allargare i suoi orizzonti riferendosi non più soltanto ad una parte del corpo del Salvatore, ma alla sua persona e più direttamente, al suo «triplice amore», cogliendo nel Cuore di Cristo il simbolo della stessa economia salvifica. Il che è quanto dire che una corretta considerazione del simbolo del Cuore di Cristo a cui fa riferimento la devozione è stata in grado di offrire alla cristologia classica manualistica il punto prospettico migliore per superare i suoi due limiti e cioè: una lettura del mistero dell’incarnazione dissociata dalla lettura del mistero della redenzione ed, in secondo luogo, una considerazione prevalentemente ontologica del Cristo senza un’altrettanto profonda individuazione dell’economia a cui corrisponde [207] . La devozione al Sacro Cuore e la spiritualità a cui dà vita orientano quindi il credente a penetrare nel mistero della persona di Cristo, sacramento originale e fondamentale dell’amore di Dio [208] . Il Cuore di Cristo è dunque un simbolo che non resta talmente cristocentrico da fermarsi a Cristo, in quanto uomo, ma si epiloga in Dio Uno e Trino, a cui Cristo, ricapitolando tutte le cose in se stesso (Ef 1, 10), porta in qualità di mediatore universale (1 Tm 2, 5).
La spiritualità della devozione al Cuore di Gesù descrive anche il clima in cui matura e si esprime la nostra testimonianza cristiana dello stesso amore sperimentato. Lasciarci amare da Dio Padre con l’amore che ha portato al Figlio, nello Spirito, significa allora entrare nella logica paradossale che ci porta a trovare la vita nel momento in cui la consumiamo per il fratello, amare veramente il nostro prossimo, non sempre amabile, introdurre nella storia il nuovo modo di vivere e realizzarsi. É il progetto di salvezza cui siamo chiamati a collaborare nella Chiesa [209] . Una spiritualità così intesa, lungi dal condurre all’intimismo ed alla fuga, diventa l’anima di ogni apostolato – basti guardare a quanti Istituti religiosi l’hanno fatta propria traendone ispirazione per il proprio apostolato.
Tutto ciò non toglie come d’incanto i vari sospetti e le reali difficoltà che hanno messo in crisi la devozione al Sacro Cuore. Per quanto il declino che l’ha interessata debba essere riconosciuto come un fatto, e come fatto ineluttabile quando si guardi alle sua forme storiche concrete, alle sue pratiche di consacrazione, di riparazione, alle sue preghiere sentimentali, esso non deve prodursi nelle forme di pura e semplice dimenticanza. Evitando semplicistiche liquidazioni, bisogna distinguere ciò che è essenziale da ciò che è secondario o legato ad altre epoche culturali. Poichè che anche gli elementi accessori non sono inutili, e perciò vanno rivitalizzati e, se necessario, purificati [210] .
In seno alla cultura contemporanea, fra i non pochi squilibri, sul piano conoscitivo e sul piano morale, di cui il pragmatismo efficientista, caratterizzato da una tecnocrazia disumanizzante, ed il consumismo edonista, sono responsabili [211] , possiamo annoverare inaridimento di ogni apertura simbolico – metafisica, cioè un insieme di fenomeni preoccupanti, quali la scarsa sensibilità all’arte, alla poesia e, più in generale, ai valori contemplativi, cioè a quelle attività dello spirito che si esprimono con attraverso il simbolismo.
Anche a causa di alcune nuove, ma poco indovinate, forme pastorali legate al rinnovamento liturgico e catechetico si potrebbe andare incontro agli stessi rischi. L’attenzione un po’ ossessiva ai problemi del cristiano nel cosiddetto «sociale», ed in genere un esasperato pudore dei sentimenti individuali, della coscienza privata a proposito di tutto ciò che è personale portano trascurare del tutto la dimensione affettiva della fede, ed in tal senso la necessità della «devozione». Le forme «affettive» della devozione vanno in tal senso a cercare ricovero in gruppi e movimenti appartati, con i prevedibili inconvenienti che tali scelte conseguono [212] .
Discorso analogo per un certo atteggiamento di eccessivo – se non infondato – sospetto nei confronti dell’aspetto della devozione appartenente alla religiosità popolare, a causa dei limiti e dei pericoli a cui può portare. Tale giusta preoccupazione, guidata da discernimento, invita però a praticare una catechesi intelligente ed una pedagogia di evangelizzazione che promuovano ed orientino una autentica pietà popolare [213] . E ciò per non rinunciare alla ricchezza di valori, provenienti da quella sintesi vitale, unificatrice di tutte le dimensioni umane, che un’«esperienza popolare di Dio», come la devozione al Sacro Cuore, possiede.
L’eredità della devozione popolare al Sacro Cuore dovrebbe dunque essere raccolta sotto tale profilo, dalla pastorale odierna, con una molteplice preoccupazione. Anzitutto c’è da domandarsi se si può ancora promuovere una devozione al Sacro Cuore senza precisare cosa significhi? Un simbolo che non parla non è più un simbolo, è un segno “spezzato” di cui se ne è persa una parte. Si può leggere un simbolo solo possedendo quest’altra metà. Bisogna dunque essere in grado di leggere il simbolo del Cuore di Cristo. Le parole “Sacro” e “Cuore” non possono più essere usate oggi senza fare attenzione alle trasformazioni della nostra cultura e senza entrare nei sistemi di espressione dell’emblematica contemporanea. In ciò va raccolta la sfida di una cultura dominata dal tecnicismo, proprio tramite una maggiore attenzione e presa di coscienza dell’importanza di una educazione al simbolismo. Tale educazione, che si rivela così momento essenziale di un’iniziazione liturgica e spirituale, dovrà essere, a livello soggettivo, perfezionamento dell’attitudine contemplativa e della percezione ed espressione simbolica; a livelLo oggettivo e culturale, iniziazione al simbolismo delle realtà naturali e di alcune esperienze relazionali [214] . Oltre ad adattare e rendere comprensibile il vocabolario, a livello pratico é necessario l’impegno di un’adeguata catechesi per che porti le comunità cristiane a rinunciare a forme espressive non adeguate ed a ricercarne di nuove, affinchè la liturgia – nel senso più esteso del termine – possa continuare ad essere fonte di «devozione», e cioè momento capace di suggerire ed insieme alimentare uno «stile» secondo cui vivere la fede.
Un’ulteriore preoccupazione pastorale dovrebbe essere quella di una esplicita educazione alla preghiera ed alla «devozione» personale; ed in particolare alla «devozione» alla persona di Gesù Cristo. Per tale «devozione» – presentata non come un particolare esercizio di pietà accanto agli altri ma come sintesi della missione salvifica del Signore [215] – occorrerebbe proporre i modelli, siano esse formule di preghiera che testi di meditazione. In tal quadro potranno e dovranno trovare rinnovata attualità molti testi «tradizionali», scritti spirituali, ecc… .
Infine è importante tener conto dei bisogni del nostro tempo. Oggi non c’è più l’urgenza di interiorizzare «il sacro» socialmente troppo pregnante e, in definitiva, superficiale. Sarebbe piuttosto il contrario. Siamo invece alla ricerca di una spiritualità adatta ai bisogni di una vita cristiana ed una missione vissuta in una società secolarizzata e desacralizzata [216] . Questa potrebbe essere una «rinnovata» spiritualità del Cuore di Cristo?
BIBLIOGRAFIA
Per la bibliografia anteriore al 1959 si veda R. TUCCI, Storia della letteratura relativa al culto del S. Cuore di Gesù dalla fine del secolo XVIII ai nostri giorni, in AA. VV., Cor Jesu. Commentationes in litteras encyclicas Pii PP. XII “Haurietis Aquas”, a cura di A. BEA – H.RAHNER – F.SCHWENDIMANN, II, Roma, Ed. Herder, [1959], p. 499 – 638.
Per le opere posteriori al 1959, possono consultarsi le seguenti raccolte bibliografiche:
AA.VV., Bibliografìa del Sagrado Corazòn, Bogotà, Ed. Instuto Internacional del Corazòn de Jesùs, 1978.
F. ALBARRACIN, «Haurietis aquas». Carta Encìclica de S. S. Pio XII sobre los fundamentos del culto al Corazòn de Jesùs commentada, Granada, Ed. Misioneras Hijas del Corazòn de Jesùs, 19602, p. 235 – 310.
G. DE BECKER, Lexique pour la Théologie du Coeur du Christ, Saint – Céneré, Ed. Téqui, 1978, 130 p.
MESENGUER Y MURCIA, Bibliografìa del Sagrado Corazòn, in: AA. VV., Manual de l’Apostolado de la oracion, Madrid, Ed. Egda, 1974, p. 334 – 336.
L. ORTEGA, Cien finchas sobre el Sagrado Corazòn de Jesùs, «El libro Espanol» 22 (1959), p. 645 – 650.
Per una bibliografia riguardante la selezione degli studi più importanti sugli argomenti trattati in questo elaborato ed una pressoché completa rassegna delle pubblicazioni degli ultimi dieci anni (1980 – 1991) si veda:
F. PIGNATELLI, Teologia della devozione del Sacro Cuore di Gesù. Orientamenti odierni. (Dissertazione per la licenza), Pont. Univ. Lateranense, Città del Vaticano, 1992, 94 – XVII p.
CAPITOLO I. CULTO E SPIRITUALITA’ DEL SACRO CUORE
CAPITOLO II. SVILUPPI STORICI TEOLOGIA DEL SACRO CUORE
CAPITOLO III. CONTRIBUTI ATTUALI DELLA TEOLOGIA DEL SACRO CUORE
Note al capitolo III
[108] RAHNER, Sulla teologia del simbolo, p. 102 – 103.
[109] K. RAHNER, Zur theologie des Symbols, in Cor Jesu, I, p. 463 – 505; la traduzione in italiano si trova col titolo, Sulla teologia del simbolo, in: Saggi sui sacramenti e sulla escatologia, a cura di L. MARINCONZ,, [Roma], Ed. Paoline, [1969]2, p. 49 – 106 (Biblioteca di cultura religiosa, 65).
[110] Infatti, per esempio, quando l’ HA parla di un «naturalis symbolus» intende semplicemente che è un simbolo che si impone all’uomo spontaneamente.
[111] RAHNER, Sulla teologia del simbolo, p. 51 -52.
[112] Oltre al Lempl ed al Noldin, qui Rahner allude a L. LERCHER, (Institutiones Theologiae Dogmaticae, III, Innsbruck, Ed. F. Rauch, 19342, p. 129 – 148) ed a J. SOLANO (Sacrae Theologiae Summa, III, Madrid, 19563, p. 224; 237).
[113] RAHNER, Sulla teologia del simbolo, p. 105. Ranher dimostra una notevole originalità nell’applicare analogicamente questo principio ontologico all’essere di Dio. Nella Trinità, il Padre attualizza la sua personalità di padre in quanto genera il Logos. Questo è auto – espressione del Padre, della stessa essenza e divina sostanza, eppure realmente diversa: «Ciò significa che il Logos è il “simbolo” del Padre, proprio nel senso che abbiamo dato alla parola…»(p. 79). Ed ancora, il Logos incarnato è simbolo di Dio nel mondo, poichè è pieno della realtà di Dio ed esprime tutto ciò che Dio vuol essere e realizzare per il mondo. A sua volta, – come accennato nel II capitolo – l’umanità di Cristo, nella sua corporeità è il simbolo del Logos incarnato. Essa non è solo un abito di cui Cristo si copre, ma costituisce un elemento essenziale nel composto teandrico, e dà pieno significato all’incarnazione: in essa il Logos esprime se stesso e le sue intenzioni divine (cf p. 76 – 85).
[114] In fondo, Karl Ranher non fa che ripensare la stessa teoria del «cuore etico» e, sviluppandola in una maniera personale, la sottrae alle critiche a cui era stata sottoposta, e cioè il fatto che fosse incompleta e troppo complicata, che sviluppasse insufficientemente il simbolismo del cuore e non seguisse le direttive dei documenti magisteriali.
[115] La quale è una delle maggiori obiezioni formulate nei confronti del culto già dai giansenisti.
[116] RAHNER, Sulla teologia del simbolo, p. 106 – 107. Quanto il teologo insista sulla «realtà» del simbolo, o, meglio, sul «simbolo reale», possiamo dedurlo dalle sue particolari applicazioni. Il concetto rahneriano di simbolo, ossia «…quel fenomeno che appare nella storia, percepibile nel tempo e nello spazio, nel quale, un’essenza nel suo apparire visibile si mostra, e mentre si mostra, si rende presente dando forma a queto fenomeno realmente diverso da sè» (SANNA, La cristologia antropologica…, p. 59), diventa quasi un’applicazione della «concezione di alienazione di Hegel (cioè di quel concetto, nella natura del quale sta il ‘manifestarsi’)» (J. SPLETT, Simbolo, in «Sacramentum Mundi», VII, a cura di K. RAHNER, [Brescia], Ed. Morcelliana, [1977], p. 646). Le conclusioni di una tale «teologia del simbolo» sono suggestive, ma possono in parte anche suscitare delle riserve, soprattutto quando è questa è applicata alla riflessione trinitaria. Non potendo entrare ora nel merito con valutazioni critiche, rinviamo a studi monografici e specifici come, per esempio, G. BLANDINO, La dottrina trinitaria di Karl Rahner, in AA. VV., Questioni dibattute di teologia, II, [Roma], Ed. Città Nuova, [1978], p. 226 – 234; e WONG, Logos – Symbol…, p. 74 – 108.
[117] RAHNER, Sulla teologia del simbolo, p. 53.
[118] Per esempio, cf J. GALOT, Quel est l’object de la dèvotion au Sacré – Coeur?, «Nouvelle revue Thèologique», 77 (1955) p. 924 – 938. (In questo articolo Jean Galot, riprende sostanzialmente le posizioni di Karl Rahner, ma arriva a conclusioni più radicali, condividendo l’opinione sopra riportata); E. FRANCHINI, Una spiritualità del Cuore, «Testimoni» 10 (1989), p. 7 – 10.
[119] Per l’argomento e la relativa bibliografia rimandiamo, oltre al saggio di Karl Rahner, allo studio di Arnaldo BARITUSSIO, Il simbolo del Cuore di Cristo in “Haurietis aquas” e in “Dives in misericordia”. Evento di rivelazione, XXXIII – 300 p.; in particolare p. 11 – 79; al libro di Francesca MARIETTI, Il Cuore di Gesù, p. 81 – 84; ed all’articolo di Eliseo RUFFINI, La teologia del Cuore di Gesù nel contesto della riflessione teologica postconciliare, in Teologia e spiritualità del Cuore di Gesù…, p. 9 – 26.
[120] Cf P. RICOEUR, Le conflit des interprétations. Essais d’herménetique, Paris, Ed. Seuil, 1969, p. 16.
[121] Il simbolo è guardato con sospetto ogni qual volta ci si orienta a riconoscere che la interpretazione logica del reale sia la più adatta (se non l’unica) forma interpretativa dell’esistenza umana. In tale concezione il simbolo è radicalmente inadatto a trasmettere perfettamente la verità che si nasconde sotto le sue spoglie. Da questa impostazione metafisica, deriva ancor oggi, l’uso, nella lingua corrente, del termine «simbolo» come sinonimo di «non vero», di «fantastico», di «non reale».
[122] Cf O. DUCROT – T. TODOROV, Dizionario enciclopedico delle scienze del linguaggio, a cura di G. CARAVAGGI, [Milano] Ed. ISEDI, [1972], p. 117 (Dizionari e manuali ISEDI, 5)
[123] Cf G. BUCARO, Filosofia della religione. Forme e figure…, [Roma], Città Nuova, [19882], 204 p.; in particolare p. 149 – 185.
[124] D. SARTORE, Segno – Simbolo, DTI, III, p. 233.
[125] Non a caso, nel linguaggio usato dai mistici troviamo un largo uso di simboli, gli unici a poter esprimere l’inesprimibile dei contenuti dell’esperienza mistica.
[126] R. LACK, Simboli biblici, NDS, p. 1465.
[127] Cf HA 12, ed anche 13; 27; 39; 42.
[128] A tal proposito, sembra eccessiva l’affermazione di Karl Rahner secondo cui la parola «cuore» «esiste in tutti gli idiomi e fa parte del tesoro originario del linguaggio umano»(RAHNER, «Ecco quel cuore», p. 262).
[129] Cf J. RATZINGER, Misterio Pascual y culto al Corazòn de Jesùs, «Tierra Nueva» 11 (1982), p. 79 – 80: l’articolo, oltre a presentare l’istanza di cui sopra, analizza a mo’ di esempio quale antropologia sottende l’enciclica «Haurietis aquas».
[130] Cf E. R. HILGARD – R. C. ATKINSON – R. L. ATKINSON, Psicologia. Corso introduttivo, [Firenze], Ed. Giunti, [1979]2, p. 54 – 55; 381 -382.
[131] Cf per i fondamenti linguistici e le premesse storico – semantiche: F. BAUMGÄRTEL – J. BEHM, Kardìa, GLNT, V, p. 193 – 216; per il concetto biblico – teologico, unitamente ai rpincipali concetti affini dell’antropologia biblica (psyké, nous, diànoia, pnéuma, ecc.): cf AA. VV., Psyké…, GLNT, XV, p. 1161 – 1320; ed anche, J. GUILLET, Le coeur révelé, «Christus» 35 (1988), p. 262 – 271; A. LEFEVRE, Cor et cor affectus. 1. Usage biblique, DSAM, II (1953), p. 2278 – 2281; H. LESETRE, Coeur, «Dictionnaire de la Bible» II, a cura di F. VIGOUROUX, Parigi, Ed. Letouzey et Anè, 1926, p. 822 – 826; C. POZO, Simbologia del «corazòn» en la Biblia y en la tradiciòn cristiana, «Didaskalia» 14 (1984), p. 201 – 230; A. TESSAROLO, Il simbolismo del «cuore» nell’Antico Testamento, in AA. VV., La spiritualità del cuore di Cristo, a cura di G. MANZONI, Bologna, Ed. Dehoniane, [1990], p. 49 – 61, (Teologia via, 5).
[132] Cf J. BEHM, Koilìa, GLNT, V, p. 663 – 673 (in particolare p. 665 – 666); H. KÖSTER, Splànknon, splànkna…, GLNT, XII, p. 903 – 934 (in particolare p. 912 e 924). Sottolineano questa equivalenza BERNARD, La spiritualità del Cuore di Cristo, p. 38; BARITUSSIO, Il simbolo dl Cuore di Cristo…, p. 172; H. RAHNER, Fondamenti della devozione, in Cor Salvatoris, p. 31 – 32.
[133] Il cuore, non l’organo fisico invisibile ma precisamente l’interiore scoperto dalla piaga del costato, significa l’amore del Salvatore in persona; Cf DEMOUSTIER, La dévotion, le sacré et le Coeur, p. 349; e DE BECKER, Théologie actuelle du Sacré-Coeur, p. 176. É interessante notare che nonostante la metafora sia sostanzialmente quella del linguaggio biblico, nel XVII secolo, essa era attinta dall’uso corrente del tempo rivestita di una duplice accezione, intellettuale ed affettiva. In questo periodo le sfumature del senso della parola «cuore» sono quasi tutte volontaristiche, e comunque lontane dalle interpretazioni sentimentalistiche che fioriranno con il Romanticismo. La stessa devozione del Sacro Cuore non riuscirà, da principio, a far uscire l’immagine del cuore fuori dai limiti del volontarismo tradizionale, nonostante già in santa Margherita Maria Alacoque cominci ad imporsi con un’istanza doloristica e sentimentale (Cf L. COGNET, Cor et cordis affectus. 4. Le coeur chez les spirituels du 17e siècle, DSAM, II, (1957), p. 2300 – 2307; ed anche A. EDWARDS, La devocion al Corazòn de Jesùs y la cultura del siglo XVII, «Tierra Nueva», 12 (1983) 46, p. 62 – 82).
[134] Cf G. ROUX, Aujourd’hui, le coeur, «Christus» 35 (1988), p. 376 – 383.
[135] E. GLOTIN, Il m’a aimé: le signe du Coeur de Jésus, et sa place dans l’exposè de la foi, Parigi, Ed. Secrétariat de l’Intronisation, 1979, p. 34.
[136] Ciò che propone la santa non è l’immagine di un semplice cuore ma è un disegno emblematico: un cuore sormontato da una croce inserito in una corona di spine, segni della passione, ecc… . Questa simbolica corrisponde ad un «gioco» di emblemi ed araldica, comune all’epoca, che prendeva le mosse dalla creazione dei blasoni nobiliari. Cf l’interessante articolo di Adrien DEMOUSTIER, La dévotion, le sacré et le Coeur, «Christus» 35 (1988) p. 347 – 361.
[137] Cf HA 14 – 28.
[138] Cf BERNARD, La spiritualità del Cuore di Cristo, p. 96.
[139] Per i seguenti tre paragrafi son costretto a procedere per accenni. Anche le referenze bibliografiche riportate in nota non sono che delle semplici indicazioni. Per un ulteriore approfondimento rimando alle rassegne specifiche.
[140] La Scrittura, accanto alla valenza specifica religiosa e teologica del termine «agape», nel renderne le risonanze affettive e passionali usa il lessico connesso con il campo semantico della «misericordia» e «compassione» dalla risonanza insieme religiosa ed etica. Cf soprattutto A. NYGREN, Eros e Agape. La nozione cristiana dell’amore e le sue trasformazioni, Bologna, Ed. Il Mulino, 1971; G. QUELL – J. SCHNIEWIND, Agapào…, GLNT, I, p. 58 – 150; G. STÄHLIN, Filèo…, GLNT, I, p. 1115 – 1264; C. SPICQ, Agapè dans le Nouveau Tenstament. Analyse des textes, 2 voll., Paris, Ed. Gabalda, 19663.
[141] La presente difficoltà terminologica e concettuale si rafforza con il chiederci fino a che punto possiamo parlare di Dio con delle proposizioni esistenziali. Infatti, l’affermazione neotestamentaria «Dio è amore» potrebbe venir rovesciata ed al posto del soggetto mettere il predicato: «l’amore è Dio», il che significa che dove c’è amore c’è Dio, c’è il Divino. Un modo di esprimersi pienamente legittimo, anche per il cristiano, ma che potrebbe venir interpretato ateisticamente se non si chiarisse chi sia il soggetto dell’amore, o in che modo si atteggino il soggetto umano ed il soggetto divino (cf W. KASPER, Il Dio di Gesù Cristo, a cura di D. PEZZETTA, Brescia, Ed. Queriniana, [1985]2, p. 70 (Biblioteca di teologia contemporanea, 45).
[142] KASPER, Il Dio di Gesù Cristo, p. 83.
[143] Per essere precisi,«le affermazioni dirette di un amore di Dio verso gli uomini appaiono in un’epoca piuttosto tardiva. Le antiche tradizioni sui patriarchi ed anche i testi sulla liberazione dall’Egitto e sull’alleanza sinaitica presentano in atto Dio che, oltre che a proteggere e ad assistere, rivendica il diritto di possesso sui suoi prediletti con il proposito di renderli “suo popolo” (Es 19, 5; Is 43, 20; Os 2, 25), ma non parlano direttamente del suo amore». A. PENNA, Amore nella Bibbia, Brescia, Ed. Paideia, 1972, p. 41.
[144] Il pathos di Dio non va compreso come emozione irragionevole o semplice stato psicologico, ma è espressione attraverso il linguaggio antropomorfico, del coinvolgimento di Dio nella storia. Di più è un pathos carico di ethos che esprime un giudizio morale giustificante eticamente. Cf BORDONI, Gesù di Nazaret Signore e Cristo. Saggio di Cristologia sistematica. I. Introduzione alla cristologia, [Roma] Herder – Pont. Univ. Lateranense, [1985]2 p. 142.
[145] Cf C. DUCOQUE, Un Dio diverso. Saggio sulla simbolica trinitaria, a cura di P. CRESPI, [Brescia], Ed. Queriniana, [1989], (Nuovi Saggi Queriniana, 36), p. 121 – 122; BORDONI, Gesù di Nazaret…, III, p. 513 – 514 ed anche H. U. VON BALTHASAR, Mysterium Paschale, «My.Sal.», VI, p. 188 – 189.
[146] Cf BORDONI, Gesù di Nazaret…, I, p. 144.
[147] É necessario superare il pericolo latente di ridurre la prassi di Gesù come prassi di amore agapico, alla sua interpretazione esclusivamente affettiva, nel quadro di una morale puramente individualista, come spesso è avvenuto sotto la spinta di una lettura culturale borghese del linguaggio e della prassi di Cristo e, quindi, del cristianesimo. Cf M. BORDONI, La dimensione della carità nella cristologia e nella teologia trinitaria, p. 80, in AA. VV., La carità. Teologia e pastorale alla luce del Dio – Agape, a cura del PONT. IST. PASTORALE DELL’UNIVERSITA’ LATERANENSE, Bologna, Ed. Dehoniane, [1988], (Fede e annuncio, 15).
[148] BORDONI, Gesù di Nazaret…, I, p. 153.
[149] Cf BORDONI, Gesù di Nazaret…, I, p. 152.
[150] Cf il Capitolo II.
[151] RAHNER, «Ecco quel cuore», p. 198.
[152] Nella scrittura lêb (cuore) è la parola che più si avvicina a ciò che noi chiamiamo coscienza (cf 1 Sam 25, 31): E. JACOB, Psyké… B. Nell’antropologia dell’Antico Testamento. 4. Il cuore come centro della vita ed essenza della persona, GLNT, XV, p. 1210 – 1215. Su questa linea, Ignace de La Potterie afferma la necessità di «giungere a conoscere l’interiorità della vita di Gesù: questo è precisamente ciò che vogliamo esprimere quando parliamo del Cuore (di Gesù) nel senso biblico. Allora vedremo il suo cuore non più come un simbolo astratto, intemporale, fissistico, ma piuttosto come un cuore vivente, come intenzionalità profonda della vita di Gesù, quella dell’uomo Gesù nel suo duplice rapporto con il Padre e con gli uomini»; I. DE LA POTTERIE, Verso un rinnovamento della spiritualità del Cuore di Gesù, «Vita Consacrata», 20 (1984), p. 373 – 374. Cf anche I. DE LA POTTERIE, Il mistero del cuore trafitto. Fondamenti biblici della spiritualità del Cuore di Gesù, Bologna, Ed. Dehoniane, [1988], 184 p.
[153] Dal punto di vista metodologico, è possibile raggiungere la straordinaria coscienza personale di Gesù e l’implicazione cristologica del suo messaggio, cioè che la sua persona è al centro del suo annuncio, innanzitutto cogliendo la «realtà di Gesù Cristo», nel modulo della sua concretezza storica. Tale discorso cristologico storico – narrativo ed esistenziale, già adottando il criterio di ricerca dell’«immagine prepasquale» di Gesù riesce a ricavare dal suo comportamento e dalla sua prassi (ipsissima facta), fondamento interpretativo del suo linguaggio che risuona dal fondo della tradizione evangelica, quella segreta intenzione (ipsissima intentio) che unifica tutta la sua vita ed emerge in maniera decisiva dinnanzi alla sua morte. (Cf il capitolo: «Gesù agli inizi della cristologia» in BORDONI, Gesù di Nazaret…, I, p. 49 – 56).
[154] BORDONI, Gesù di Nazaret…, I, p. 148
[155] DE LA POTTERIE, Verso un rinnovamento…, p. 375.
[156] VON BALTHASAR, Mysterium Paschale, p. 238.
[157] Cf COMMISSIOINE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, La coscienza che Gesù aveva di se stesso e della sua missione. Quattro proposizioni commentate, «Cv.C.», 137 (1986), III, p. 53 – 65; in particolare p. 57. Cf DE LA POTTERIE, Verso un rinnovamento…, p. 377.
[158] É noto che il cervello non ha alcuna parte nella fisiologia e psicologia biblica. Cf JACOB, Psyké…, p. 1213.
[159] JACOB, Psyké… B. Nell’antropologia dell’Antico Testamento. 5. Lo spirito. d) Il rapporto con nefes e cuore, GLNT, XV, p. 1219 – 1220. Questa conformazione alla mentalità ellenistica, si verifica in misura ancora maggiore nelle altre versioni greche dell’Antico Testamento, come, per esempio, in quella di Simmaco.
[160] A. GUILLAUMONT, Les sens des noms du coeur dans l’antiquité, in AA. VV., Le Coeur, Bruges – Paris, Ed. Desclèe de Brouwer, 1950, p. 67, (Études Carmélitaines mystiques et missionnaires, 29); A. GUILLAUMONT, Cor et cordis affectus. 2. Notion de «coeur» chez les auteurs spirituels grecs à l’èpoque ancienne, DSAM, II, (1957), p. 2281 – 2288.
[161] Nel mondo greco, solo nella poesia kardia è sperimentato come il principio della vita spirituale e psichica dell’uomo. Nella terminologia filosofica, al contrario, ha solo una accezione fisiologica: Platone e Aristotele si mostrano poco propensi nell’attribuire a kardia delle funzioni psichiche.
[162] ORIGENE, In Canticum Canticorum II, PG 13,67. Cf H. CROUZEL, Il cuore secondo Origene, in Cuore di Cristo cuore dell’uomo, p. 113 – 144; M. FEDOU, Le coeur de l’Epoux: Origène et le langage du coeur, «Christus» 35 (1988), p. 272 – 278; K. RAHNER, «Coeur de Jesus» selon Origène?, «Revue d’Ascétique et de Mistique» 14 (1934) p. 171 – 174.
[163] Cf A. CUNNINGHAM, Il cuore negli scritti di sant’Ambrogio, in Cuore di Cristo cuore dell’uomo, p. 91 – 112.
[164] Cf C. BOYER, Le triple amour du Christ pour les hommes dans les éctits de Saint Augustin, in Cor Jesu, I, p. 569 – 594.
[165] H. RAHNER, Gli inizi della devozione…, p. 55. Per ciò che riguarda l’argomento in generale cf H. RAHNER, Mirabilis progressio. Gedenken zur geschichtstheologie der Herz-Jesu-Verehrung, in Cor Jesu, I, p. 21 – 58; H. RAHNER, Gli inizi della devozione…, p. 49 – 69; J. SOLANO, La Santa Misa y el culto al Sagrado Corazòn. Estudio teologico-patristico, in Cor Jesu, I, p. 269 – 306; A. TESSAROLO, L’oggetto del culto al cuore di Gesù negli scritti dei padri, in: AA. VV., Il Cuore di Gesù e la teologia cattolica, Bologna, Ed. Dehoniane, 1965, p. 179 – 227; TUCCI, Storia della letteratura…, p. 592 – 593 (nota 308).
[166] Le cose non cambiano neanche con il successo del cartesianesimo: Descartes, infatti, nell’articolo 33 del Trattato delle passioni, dimostrava che la sede delle passions de l’âme non è il cuore.
[167] Parlando di volontà si adottava anche la distinzione scolastica tra voluntas ut natura, impulso primitivo e spontaneo, e voluntas ut ratio, risultato di una scelta razionale e deliberata.
[168] Si è già detto, nel I capitolo, dell’influsso che «Ecole française» ha avuto anche su santa Maria Margherita Alacoque; cf GLOTIN, Jean Paul II à Paray – le – Monial ou pouquoi le “Coeur”?, p. 685 – 714. Per quanto segue cf M. DUPUY, Intérieur de Jésus, DSAM, VII (1971), p. 1873 – 1877 e COGNET, Cor et cordis affectus…, p. 2300 – 2307.
[169] É il periodo in cui, in filosofia, il «cogito» cartesiano cominciava ad aprire nuove riflessioni anche in campo teologico come quella dell’anima di Gesù e sulle ripercussioni causate dall’incarnazione in ciò che noi chiamiamo la psicologia di Cristo. Cf il capitolo «La cristologia nell’epoca moderna: fra metafisica e psicologia» del libro di L. BOUYER, Il Figlio eterno. Teologia della parola di Dio e cristologia, [Alba], Ed. Paoline, [1977], p. 443 – 464, (Teologia, 15).
[170] Il Cristo, paragonato all’uomo interiore paolino (cf Ef 3,16; Rm 7, 22; 2 Cor 4, 16), sarà proposto come modello dell’anima.
[171] Sullo sfondo di questa comprensione del simbolo del Cuore di Cristo il passo evangelico è stato commentato da J. GALOT, Il Cuore di Gesù e il mistero dell’incarnazione redentrice, «Vita Consacrata», 22 (1986), p. 444 – 458; e da A. TESSAROLO, Cuore di Gesù. 72/1, in «Schede biblico pastorali», II, a cura di G. ALBIERO – G. CANFORA – A. TESSAROLO, Bologna, Ed. Dehoniane, [1982], p. 1 – 4.
[172] Già san Giustino, nel II secolo, applicava le parole del Salmo 22, 15 : «il mio cuore siè come cera, che si fonde in mezzo alle mie viscere» ai patimenti di Gesù nel Getzemani (Dialogo con Trifone, 720 A: PG 6, 717).
[173] Andrebbe qui posto il problema ermeneutico di una retta ricomprensione del linguaggio soteriologico, che la spiritualità riparatrice sottende, alla luce della concezione della soteriologia cristiana come «soteriologia dell’agape», ma – soprattutto per la vastità del tema – qui ci è impossibile farlo. Cf BORDONI, Gesù di Nazaret…, III, p. 94 – 613 ed in particolare p. 500 – 511.
[174] HA 27. Il rapporto simbolico cuore – corpo di Cristo è visto dall’enciclica, però, solo sotto il prisma dell’affettività.
[175] «É noto che il Signore ha assunto gli affetti sensibili per confermare la realtà dell’Incarnazione, vera e non fantastica» (BASILIO MAGNO, Ep. 261, 3: PG 32, 972; cf GIOVANNI DAMASCENO, De fide orthodoxa, III, 20: PG 94, 1081).
[176] «Pertanto, poichè egli assunse l’anima, ne assunse parimenti le passioni: in quanto Dio, infatti, come egli era, non avrebbe potuto nè turbarsi nè morire» (De Fide ad Gratianum II, 7, 56: PL 16, 594).
[177] «Ora il Signore Gesù assunse questi sentimenti della fragile natura umana, come la carne stessa che fa parte dell’inferma natura dell’uomo, e la morte dell’umana carne, non spinto dal bisogno della sua condizione divina, ma stimolato dalla sua libera volontà di usarci misericordia» (Enarrat. in Ps. 87, 3: PL 37, 1111).
[178] GS 22. La medesima citazione è stata ripresa da Giovanni Paolo II, nell’enciclica Redemptor Hominis (n. 8). L’ affermazione conciliare sulla pienezza dell’umanità assunta dal Verbo ribadisce quanto prima si è detto. É importante rilevare che essa rimuove ancora una volta l’opposizione tra cristologia ontologica e cristologia funzionale. Infatti una cristologia funzionale della «pro – esistenza» riceve tutta la sua forza di «essere per gli altri», solo perchè si fonda sulla piena ed umana esistenza del Verbo di Dio incarnato. Per cui il «vivere per noi» di Cristo non è solo un modello etico: il suo agire e vivere per noi è l’agire e il vivere «umano» di Dio.
[179] I Padri hanno messo in evidenza questa realtà soprattutto commentando il fiat del Getzemani: la nostra salvezza è stata voluta umanamente da una persona divina. Cf MASSIMO CONFESSORE, De eo quod scriptum est: «Pater si fieri potest transeat a em calix» (Mt 26,39): PG 91, 65 – 68.
[180] «Ebbe compassione» (cf anche Mc 6, 34): diversi passi evangelici segnalano questa attitudine spirituale di Gesù. Il termine traduce il verbo greco «esplanchnìzomai», il quale rende a sua volta la terminologia biblica che fa riferimento alle «viscere», in ebraico «rahamim». Nell’Antico Testamento sentimenti di misericordia e compassione sono propri Dio: è illuminante a tal proposito la pagina di Osea: quando Israele tradisce le aspettative di Dio, egli che era stato come un padre verso il suo popolo (11, 4), esclama amareggiato, non volendo venir meno ai suoi impegni d’amore: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione»(11, 8b). Lo stesso uso terminologico è fatto proprio da Gesù nelle parabole per esprimere la compassione del re di fronte alle suppliche del servo che non può pagare il debito, nella parabola del «servo spietato» (Mt 18, 23 – 35); quella del «buon Samaritano» che realmente si fa prossimo di colui che era nel bisogno (Lc 10, 33); e, nella grande parabola del padre e dei due figli (cf Lc 15, 11 – 32), «si commosse» è la motivazione per cui il padre con un’iniziativa gratuita e spontanea riaccoglie il figlio minore. A questo amore compassionevole di Dio Gesù si appella per giustificare le sue scelte di solidarietà attiva, il suo farsi carico e curvarsi sulle miserie umane, anzi esso ne è la sorgente. In questo verbo, dunque, i sinottici condensano tutto il «cuore» di Cristo, mostrando come esso, secondo la stessa radice etimologica, venga quasi spremuto dal bisogno di salvezza per l’umanità. (Per l’equivalenza pratica tra kardìa e splànkna, vedi quanto si è detto precedentemente).
[181] GALOT, Il Cuore di Gesù e il mistero…, p. 457.
[182] Cf GALOT, Il Cuore di Gesù e il mistero…, p. 451-456.
[183] BORDONI, Gesù di Nazaret…, II, p. 453.
[184] GS 22; cf 10.
[185] AGOSTINO, Confess. I, 1: PL 32, 661. Cf GS 21.
[186] Completiamo qui quanto si è accennato, nel II capitolo, illustrando la posizione di Karl Rhaner. Cf le pagine dedicate a «L’evento cristologico e la sua rilevanza universale. Cristologia ed antropologia» in BORDONI, Gesù di Nazaret…, I, p. 186 – 219.
[187] I. DE LA POTTERIE, «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto». Sangue di Cristo e oblatività, «Civ.Catt.», 137 (1986), III, p. 111; a dire il vero l’autore altrove si mostra propenso a seguire via biblica del cuore – interiorità, pochè il testo del «cuore trafitto» si riferisce a Gesù già morto, e non dice nulla del cuore vivente di Gesù e della sua interiorità (DE LA POTTERIE, Verso un rinnovamento della spiritualità…, p. 373).
[188] ORIGENE, Contra Celsum II, 59: PG 11, 904.
[189] Le parole «chi crede in me» (v. 38) possono grammaticalmente riferirsi alla frase precedente o alla seguente; di conseguenza il senso del contesto cambia a secondo dell’interpunzione. Tuttavia, pur non entrando in merito alla questione su quale sia la versione più probabile, intendere lo stesso Gesù quale sorgente di acqua viva è in linea con il concetto giovanneo dell’identità degli effetti in Gesù e nei suoi (cf 14, 12): cf KÖSTER, Splànknon, splànkna…, p. 934.
[190] Per gli altri passi riguardanti la promessa dell’acqua cf Is 12, 3; 33, 16: come prode guerriero (Is 42, 17) Dio per il suo popolo rinnova i prodigi dell’esodo: spiana e traccia una strada nel deserto perchè vi possa incedere con celerità e vi immette le fiumane d’acqua per dissetarlo (Is 41, 18; 42, 15 – 17; 43, 19b – 20; 48, 21; 49, 10).
[191] Sulle orme di Zaccaria, l’autore del VI evangelo abbina al tema della della regalità universale («sarà re su tutta la terra» di Zac 14,9 a cui corrisponde Gv 19, 19 – 22) quello dell’universalismo della salvezza: le acque portano ad oriente e a occidente purificazione e vita.
[192] Cf anche BORDONI, Gesù di Nazaret…, III, p. 135 – 137.
[193] Dal passo parallelo di Gv 6, 44 – 45, sulla necessità dell’attrazione del Padre per poter venire a Gesù, si vede che «essere attirato» significa: ascoltare il Padre e lasciarsi istruire da lui, che è l’atteggiamento fondamentale della nuova alleanza (cf Is 54, 13; Ger 31, 33 – 34).
[194] Per l’enciclica Haurietis Aquas oltre a Giovanni, anche Maria, ai piedi della croce, e l’ apostolo Tommaso, nel cenacolo, assolvono una funzione tipica nella contemplazione del Cuore di Cristo (HA 48 – 50).
[195] BORDONI, Gesù di Nazaret…, II, p. 511.
[196] Ambrogio afferma che ciò significa per la Chiesa introdursi nella «stanza segreta» di Cristo, cioè «nell’interno di tutti (i suoi) misteri» (In Ps. 118, 1, 16: CSEL 62, 16). Per le citazioni patristiche cf A. CARMINATI, É venuto nell’acqua e nel sangue. Riflessioni biblico patristiche, Bologna, Ed. Dehoniane, 1979, p. 102 -112; A. LUIS, El Corazòn de Jèsus y los dogmas fundamentales del Cristianismo, in AA. VV., La Enciclìca «Haurietis Aquas». Comentarios teologicos, I, Madrid, Ed. CO. CUL. SA., 1958, p. 145 – 181; E. MALATESTA, Blood and water from the pierced side of Christ (Jn 19, 34), in AA. VV., Segni e sacramenti nel vangelo di Giovanni, a cura di P. R. TRAGAN, 19772, p. 179 – 181 (Studia Anselmiana, 66).
[197] Ad esempio, per Agostino la ferita del costato è l’apertura «della porta della vita, donde sono usciti i sacramenti»; è la porta aperta da Noè nel fianco dell’Arca «…per farvi entrare gli animali che dovevano essere salvati dal diluvio»(In Joan. 120, 2: PL 35, 1953).
[198] «Ed è per raffigurare questo mistero – afferma Agostino – che la prima donna fu tratta dal fianco di Adamo addormentato, e che venne chiamata: vita e madre dei viventi. Qui noi vediamo il secondo Adamo piegare il capo e addormentarsi sulla croce, perchè una sposa gli fosse formata, con il sangue e l’acqua che sgorgarono dal suo costato dopo la sua morte» (In Joan. 120, 2: PL 35, 1953). La tipologia è utilizzata anche dalla costituzione Sacrosanctum Concilium: «…dal costato di cristo dormiente sulla croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa» (SC 5; cf anche LG 3). Per il parallelo patristico «Eva – Chiesa» cf BORDONI, Gesù di Nazaret…, III, p. 337 – 338.
[199] Ancora Agostino, insistendo sull’aggettivo aperto là dove l’evangelista ha usato «trafitto», indica una pista da percorrere: «Cristo è la porta. Per te è stata aperta questa porta, quando il fianco è stato trafitto dalla lancia. Ricorda ciò che ne uscì e scegli per dove entrare» (In Joan. 9, 10: PL 35, 1415).
[200] GIOVANNI PAOLO II, Dives in Misericordia 13.
[201] M. BORDONI, La teologia della redenzione, in AA. VV., Spiritualità oblativa riparatrice, Bologna, Ed. Dehoniane, [1989], p. 122 – 123 (Teologia viva, 4).
[202] BORDONI, La teologia della redenzione, p. 123.
[203] GIOVANNI PAOLO II, Redemptor Hominis 9.
[204] Di questa alleanza nuova ed eterna diviene «realizzazione anticipatrice» la cena dell’addio: secondo le parole pronunciate da Gesù il nuovo statuto divino prende vita dalla sua cruenta morte, nel suo sangue (cf Eb 9, 11) che il calice della cena rende presente (cf Lc 22, 20; 1 Cor 11, 25; Mc 14, 24 = Mt 26, 28).
[205] In Col 2, 11 il battesimo chiamato addirittura «circoncisione di Cristo», in quanto con la circoncisione del cuore è dato l’essere in Cristo (cf Gal 5, 6).
[206] Cf E. RUFFINI, Sacramenti, NDT, p. 1383 – 1384 e SARTORE, Segno – Simbolo, p. 238 – 239.
[207] RUFFINI, La teologia del Cuore di Gesù…, p. 14 – 15.
[208] G. CIRAVEGNA, Un mistero di amore e di grazia, «Vita pastorale» 79 (1991), p. 37.
[209] Cf SANNA, Sacro Cuore di Gesù, p. 1350 – 1351
[210] Cf [G. SALVINI], Il Sacro Cuore di Gesù alla soglia del terzo millennio (editoriale), «Cv.C.», III, 141 (1990), p. 13.
[211] Cf GS 8.
[212] ANGELINI, La devozione al Sacro Cuore…, p. 61 – 64.
[213] Cf PAOLO VI, Evangelii Nuntiandi, 48; COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Fede e inculturazione, «Cv.C.», 129 (1989), II, p. 170 – 171.
[214] Cf SARTORE, Segno – Simbolo, p. 240 – 241.
[215] Cf T. GOFFI, «Chi ha visto ne dà testimonianza»(Gv 19, 35), «Presbyteri» 16 (1982), p. 349
[216] Cf DEMOUSTIER, La dévotion, le sacré et le Coeur, p. 354 – 356.