Padre Annibale Di Francia tra Sant’Alfonso e Karl Marx

Il primo giugno 1927, cinquant’anni fa, moriva a Messina il canonico Annibale Di Francia, fondatore dei Padri Rogazionisti e delle suore Figlie del Divino Zelo. Era nato in questa città il 5 luglio 1851. E se ci fermiamo a questo dato informativo, siamo ben lontani dal poter presumere di presentare questo sacerdote come testimone della speranza: di fondatori ce n’è un’inflazione di cause di beatificazione introdotte, non ne parliamo; e la sua è stata introdotta il 17 novembre 1975. E invece il Di Francia è effettivamente una gran figura testimoniale. Vediamo perché.

Discendeva da una famiglia nobile: terzogenito di Francesco Di Francia, marchese di Santa Caterina, e della marchesa Anna Toscano di Montanaro. Fu orfano di padre a due anni e non pare che sua madre fosse particolarmente affettuosa, tanto che lo collocò prima presso una vecchia zia e poi nel collegio messinese di San Nicolò, tenuto dai Padri Cistercensi. É in questo collegio che il marchesino, abitualmente appartato e taciturno, diede una prima prova, piuttosto brillante, del suo affetto verso i poveri.

Nel refettorio dei piccoli oblati, figli di famiglie benestanti, capitò un giorno un poveraccio. I collegiali cominciarono a sfotterlo con parole, poi si misero a fare il tiro a segno con bucce, formaggio e frutta. Annibale Maria non ci vide più. I biografi, abitualmente timorati, dicono ch’egli raccolse ogni ben di Dio in una cesta e corse dietro al povero, colmandolo di cortesia, ma non è improbabile che prima di pensare all’infelice, abbia sistemato piuttosto duramente qualcuno degli assalitori. Certo è che un episodio così disgustoso non si ripeté più.

Questo amore verso i poveri piuttosto battagliero si manifestò anche in termini pubblicistici. L’ipocrisia della società italiana è proverbiale. La legge proibiva e proibisce l’accattonaggio «molesto», ma la legge soprattutto allora, non veniva mica incontro alla tragedia dei nullatenenti, dei vecchi, degli inabili al lavoro. Si limitava a minacciar loro carcere e batoste se apparivano in pubblico a deturpare il bel volto della nazione. Se avevano da morire di stenti lo facessero in privato. Il 1898 è famoso per le rivolte popolari. La gente scese in piazza un po’ dovunque, ma soprattutto in Sicilia, in Puglia, a Napoli, a Milano. I cannoni di Bava Beccaris sistemarono tutto, con la benedizione laica del «Re buono» che pensava però solo agli affari privati della monarchia.

Da allora i poveri visti in pubblico rovinavano la digestione dei notabili. Risale appunto al 1899 la protesta del Di Francia. La polizia organizzò una vera caccia ai poveri, mettendo al fresco tutti coloro che spinti dalla fame scocciavano l’anima ai passanti. Il Di Francia pubblicò questa protesta sulla stampa messinese: «La legge condanna la questua fatta con modi vessatori, e in persona di giovani accattoni che al lavoro preferiscono vessare il pubblico e forse anche scroccarlo… E tutt’altro il presentarsi di un povero vecchio cadente, il quale con voce pietosa stende la mano e domanda un tozzo, per non morire d’inedia come un cane! Dove sono questi modi vessatori? Quale legge può colpire questo derelitto? Ma è forse un delitto la povertà? So che la povertà si reputa come una sventura, come una infelicità, come una grave tribolazione, ma non si è mai detto che l’esser povero è una delinquenza… Il povero è privo di tante cose, ma almeno lasciategli godere il libero sole, la libera aria, il libero orizzonte della natura; oggi vi è tanta libertà per tutti! Più si considera questa grave ingiustizia sociale e più appare raccapricciante».

Il “Quartiere Avignone”

Si può dire che in mezzo ai poveri abbia trascorso tutta la vita. La sua protesta nei confronti dell’ingiustizia del loro stato ebbe espressioni anche letterarie e non ci riferiamo tanto ai suoi molti versi, espressione più di buona volontà e di capacità lavorativa che non di felicità di ispirazione, quanto piuttosto alla riforma del vocabolario. La sua poesia ha un carattere pedagogico: tende a esprimere in termini orecchiabili, ma molto superficiali, i buoni sentimenti spirituali: è una eco della pietà alfonsiana e della metrica metastasiana.

Riservava ai poveri gli epiteti più onorifici: li chiamava marchesi, baroni, principi e riscaldava questi appellativi con fluenti discorsi, con il gestire suasivo e abbondante siciliano.

La grande rivelazione dell’abbrutimento delle classi povere l’aveva avuta quand’era diacono e si era imbattuto in un giovane cieco, certo Francesco Zancone: gli aveva dato l’elemosina e si era informato se conoscesse le “cose di Dio“, cioè le preghiere e la catechesi. Quello rispose che non ne sapeva nulla, ma lo invitò nella sua magione: il “Quartiere Avignone”, verso la Zaèra: un inferno degno della penna di Eugenio Sue e di Francesco Mastriani, «…un pezzo di terra maledetta, abitata da un branco di bestie».

Non abbiamo tempo per presentare questa situazione: basti dire che nonostante tutte le disinfestazioni possibili, non si riuscì mai a sterminare cimici e pidocchi; c’era gente soprattutto malati e bambini, che furono letteralmente mangiati dai parassiti. Il Di Francia ricorse a tutti i mezzi e alfine organizzò anche una novena a San Giuseppe Benedetto Labre, il santo accattone, che dei pidocchi, com’è noto, si faceva disciplina e cilicio.

Poi naturalmente andò molto oltre. Cominciò ad aprire orfanotrofi, istituti, rifugi di ogni genere: gli «orfanotrofi antoniani» costellano ancor oggi il sud e anche il Veneto e via via tutte le altre regioni italiane e l’estero. Fondò, nel 1887, la congregazione delle Figlie del Divino Zelo e, nel 1891, i Rogazionisti, il cui compito era addirittura sconvolgente: dedicarsi ai poveri e agli orfani, spendere la vita pregando e operando a favore delle vocazioni. Due temi che sembrano formulati dai più recenti convegni e sinodi ecclesiali.

Infatti, alla fine dell’ottocento, non è che le vocazioni scarseggiassero nella Chiesa: erano diminuite rispetto all’epoca anteriore all’Unità nazionale, ma erano ancora in piena inflazione. Il canonico Di Francia non era preoccupato dal numero, che non costituiva ancora un problema: era preoccupato dall’autenticità, che era a volte miserabile.

Per mettere a fuoco questi problemi egli si mise in relazione coi più qualificati testimoni del suo tempo. Attraverso don Rua pose vari quesiti a don Bosco e ne ricevette chiarimenti e incoraggiamenti; a Napoli, dove trascorse molti anni in gioventù e dopo, contattò il Padre Ludovico da Casoria; all’epoca del terremoto di Messina, che in trenta secondi distrusse la città uccise anche tredici religiose del Di Francia, entrò in cordiali rapporti con Don Orione, che lo indicava ai suoi concittadini come un vero santo. Pare abbia avuto anche qualche contatto con Don Alberione, ma mentre alcuni paolini affermano di averlo visto in Alba, i rogazionisti finora non ne hanno saputo (o ricordato) nulla.

La sua pedagogia

Nei confronti dei giovani come in altre espressioni della sua personalità, possiamo vedere le tracce della sua ispirazione in Sant’Alfonso, che è l’emblema del clero italiano, soprattutto meridionale; mentre talune scelte lo renderebbero almeno in parte simpatico anche a Carlo Marx.

Preghiere, novene, canzoncine e tanta bontà attestano la sua pietà e dedizione ascetica e la sua umanità. Non escludeva, per fare un caso, le punizioni, e nessuno fino a una quarantina d’anni fa si sarebbe sognato di escluderle, ma avvertiva: «Le punizioni non debbono essere mai frequenti, nè sproporzionate alla colpa; come la medicina che è data all’infermo al di là della dose utile fa male piuttosto che bene e può anche ucciderlo».

L’istituto educativo tenuto dai religiosi, egli diceva, non dovrà in nessun caso somigliare a un istituto di correzione. La punizione più forte è «una finta sottrazione di affetto: respingere il ragazzo che si ravvicina, non mostrargli buon viso, mostrare di non volergli più bene». Il rilancio più efficace è la previsione di un premio, se possibile pubblico e comunitario, «e il premio non si limiti al diploma o medaglia, ma si concretizzi in un libretto di banca, e così quando i ragazzi usciranno dall’Istituto alla debita età, verrà loro consegnato il peculio». C’è qualcosa di più moderno, di più … socialista?

I tristi ricordi del sottosviluppo inducono il Di Francia garantire in ogni modo il senso della dignità e dell’autosufficienza dei suoi assistiti. Il superamento dell’elemosina dev’esserci, ma non attraverso il carcere o la repressione, bensì attraverso la capacità lavorativa dell’uomo. «Io ho ritenuto sempre, egli scriveva, che un Istituto che si prefigge l’educazione della gioventù, nel quale, oltre dei bambini, vi sono anche dei giovanetti capaci di lavorare, qualora pretendesse sostentarsi con le sole elemosine, si assomiglierebbe nè più nè meno che ad un giovane robusto, che invece di lavorare, volesse vivere di accattonaggio. Ad una istituzione di carità è lecito, dentro certi limiti, di stendere la mano: come ciechi, storpi, o vecchi cadenti o bambini di pochi anni. Del resto appoggiarsi sulle elemosine per istituti di giovanetti d’ambo i sessi, sarebbe un pregiudizio al retto indirizzo educativo».

Oggi è facile giudicare sommariamente. Ma noi vorremmo che i nobilastri della stampa anticlericale compissero qualche sforzo per ricostruire i tempi tragici a cui ci riferiamo, e che non distano poi tanto per vedere, se non sia il caso di giudicare con un po’ di serietà l’opera della Chiesa, che pensava ai sottosviluppati quando i laici si davano alla bella vita e comunque giravano alla larga dalle bidonvilles.

Comunque il Di Francia voleva soprattutto dignità; chiedeva lavoro. Il 20 agosto del 1906 cosi diceva a un comitato di signore dell’aristocrazia messinese, venute a festeggiare la fine dell’anno scolastico: «Le orfanelle devono vivere col lavoro delle loro mani, più che con le contribuzioni; adunque date loro delle commissioni … Lavoro io vi domando, o signori; se il contingente di tante bambine, che non manca mai nel mio orfanotrofio, ha quasi un diritto alla vostra carità, quello delle giovanette già addestrate al lavoro, non vuol vivere di elemosina: esse vogliono lavorare, anche se debbono togliere le ore al sonno, purché lavorino, purché mangiando il pane quotidiano possano dire: “Noi ce l’abbiamo lavorato! Dio benedica le nostre benefattrici, che ci hanno dato un lavoro proficuo”». Queste impostazioni femministe noi vorremmo proprio che cascassero sotto gli occhi di Adele Faccio e di Emma Bonino; vorremmo che non commettessero la scempiaggine di giudicare come se ignorassero la storia. Finirebbero per andare incontro a severe condanne, da parte di coloro che prima o poi, nella nostra o nell’altrui sponda, ritrovassero patrimoni spirituali e pedagogici come questo.

L’attuale impostazione del discorso sociologico e pastorale non dà spazio al sentimento nè al meraviglioso. Non vogliamo andar controcorrente, ma non vogliamo nemmeno tacere del tutto. Il Di Francia, che era un vigoroso giornalista, più volte, a partire dall’età di diciott’anni, incrociò la penna con gli avversari, scrivendo soprattutto sul giornale La Parola Cattolica, diretta da un suo zio. Il foglio da lui fondato, Dio e il prossimo, raggiunse l’incredibile tiratura di 700.000 copie. Comunque, la sua attività pubblicistica dovrebbe essere studiata da capo.

I fioretti

Il meraviglioso ebbe luogo soprattutto in rapporto a quella che potremmo indicare come la sua evangelizzazione e promozione umana. Si direbbe che avesse una certa dimestichezza con alcuni scherzi che un tempo si chiamavano miracoli. Un giorno, seguiva passo passo un venditore di fiori. Una svista fece cadere nel fango le gardenie del poveretto, che vedeva sfumare così il guadagno di una intera giornata lavorativa; il Di Francia le raccolse e gliele restituì nel cestino. Immaginiamo i «Sabbenedica» del fioraio.

Un creditore si presentò con l’animo per traverso, ma il Di Francia non aveva soldi. Quando quel signore stava per uscire dalla grazia di Dio, gli fu consegnata una busta anonima che saldava il debito e lasciava anche un notevole margine per la cassa comune. Anche la moltiplicazione dell’olio ebbe luogo quando ci si trovò in gravi ristrettezze.

Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Egli però non rifiutava i mezzi normali. Chiese perfino il sussidio di 3.000 lire al comune di Messina: la gente che egli aiutava non doveva essere presa in considerazione anche dalla cittadinanza? Il sussidio non solo gli fu rifiutato, ma alla seduta consiliare dovette sentire le offese più gravi al clero, alla Chiesa.

Il Di Francia replicò: «I signori consiglieri a me contrari fanno questione di partito e di principi, pretendendo che per tremila lire io abbia a vendere i miei principi per quelli di loro? Ma essi non credono, se son razionali, o atei, o nemici dei preti, io sono prete, sono sacerdote cattolico, apostolico, romano, sono fedele alla mia divisa, sono fiero dei miei principi… Sono rimasto indifferente alla sottrazione del sussidio delle tremila lire annue, attesoché ho sempre fidato in quell’altissima Provvidenza che pasce gli uccelletti nell’aria e il verme sotto la pietra! Solo mi è rimasto un senso misto di orrore e pietà a constatare per quale china corre l’attuale società…».

Forse il sentire qualcuno che crede in quello che dice, può far rinascere coraggio e coerenza anche oggi, che sappiamo dove ha portato la china avviatasi all’epoca del Di Francia.

Giampaolo D’Amico

Il Carroccio, n. 10 – 11, 2 – 12 giugno 1977, p. 2